lunedì 31 luglio 2017

Con la mente e con il cuore



Padre Arturo Sosa. L’omelia per la festa di sant’Ignazio. 

L'Osservatore Romano

(Roma, Chiesa del Gesù, 31 luglio 2017) Sant’Ignazio è un punto di riferimento permanente per noi gesuiti e per le tante persone che si nutrono della sua spiritualità. Celebrare la sua festa in questa chiesa del Gesù a Roma, accanto ai luoghi dove lui è morto e dove prima aveva consumato lunghi anni della sua vita per consolidare i fondamenti della Compagnia di Gesù e per guidarla nella sua diffusione apostolica in tutto il mondo allora conosciuto, è, perciò, un invito ad approfondire il nostro carisma e la sua spiritualità. Celebriamo questa sera sant’Ignazio come fondatore, insieme a nove altri compagni, della Compagnia di Gesù per dare gloria a Dio, che ha dimostrato anche  il suo amore misericordioso, e per “l’aiuto delle anime”. Il concilio Vaticano II ha invitato tutte le congregazione religiose a percorrere il cammino verso le loro fonti carismatiche. I fondatori e le fondatrici non sono soltanto delle brave persone, con una profonda esperienza della misericordia di  Dio e una vita esemplare, ma riconosciamo in loro anche una speciale presenza dello Spirito santo. Sono portatori di doni specifici dello Spirito alla Chiesa e per il mondo. Ogni carisma viene dato per contribuire alla costruzione del corpo della Chiesa e arricchire il suo servizio alla missione del Cristo in cui il Dio uno e trino riconcilia tutte le cose. Il riferimento a sant’Ignazio fondatore è quindi il nostro modo di rinnovare la fedeltà al loro innamorati e riuniti nel suo nome per servire la Chiesa. È l’amore di Gesù che fonda quell’unione di menti e cuori che rende possibile la Compagnia di Gesù, come ha scritto sant’Ignazio nelle Costituzioni (671): «Il principale vincolo reciproco tra loro e con il loro capo è l’amore di Dio nostro Signore. Infatti, se superiore e inferiori staranno molto uniti con la sua divina e somma bontà, lo staranno con tutta facilità anche tra loro, in virtù dell’unico amore, che da essa discenderà e si estenderà a tutto il prossimo, specialmente al corpo della Compagnia». Qui e soltanto qui troviamo le condizioni per il discernimento spirituale in comune tramite il quale lo Spirito santo guida il nostro contributo alla missione del Cristo. Unione di menti non significa quindi condividere una ideologia, una sorta di pensiero unico attorno al quale alziamo i muri per trovare una falsa identità che ci rassicura. I gesuiti, come tutti i cristiani, discepoli del Signore Gesù, sono invitati a riflettere per conto proprio, ad avere delle idee personali, a sviluppare il pensiero e a fare ricerca approfondita in tutti i campi della conoscenza umana. Infatti, la Compagnia di Gesù investe molto tempo ed energie nella preparazione intellettuale dei suoi membri, convinta di avere nell’attività intellettuale un prezioso strumento apostolico per rendere presente la lieta notizia di Gesù in tutte le dimensioni della vita umana, in ogni tempo, cultura e luogo. Ma unione di menti vuol dire avere la mente indirizzata in primo luogo a Dio e quindi alla vocazione alla quale siamo chiamati. Con le parole di sant’Ignazio nella Formula dell’istituto (1), la nostra carta fondamentale, del 1550: chi vuol far parte di questa Compagnia, «faccia anche in modo di avere dinanzi agli occhi, finché vivrà, prima di ogni altra cosa, Iddio, e poi la forma di questo suo Istituto che è una via per arrivare a Lui, e di conseguire con tutte le forze tale fine propostogli da Dio». Anche l’unione dei cuori è possibile solamente se l’amore di Cristo riempie completamente la nostra affettività in modo tale da liberarci da tutte le nostre “affezioni disordinate”, cioè dagli affetti non rivolti soltanto a Dio. Sembrerebbe più semplice unire i cuori che le menti, ma non lo è. Nel cuore di ciascuno di noi si moltiplicano queste affezioni disordinate che ci legano a persone, luoghi, lavori apostolici e diventano lacci così forti da far perdere la libertà interiore, la “indifferenza ” del principio e fondamento degli Esercizi spirituali (23), quella che fa sì «che non desideriamo da parte nostra la salute piuttosto che la malattia, la ricchezza piuttosto che la povertà, l'onore piuttosto che il disonore, una vita lunga piuttosto che una vita breve, e così per tutto il resto, desiderando e scegliendo soltanto quello che ci può condurre meglio al fine per cui siamo creati». L’unione dei cuori corrisponde all’esperienza raccontata dal profeta Geremia, costretto a lasciarsi sedurre dalla forza della presenza di Dio nella sua vita, malgrado tutte le resistenze che egli mette in atto davanti all’incontro con il Signore. Malgrado la sensazione di vergogna e lo scherno continuo di cui è oggetto, riconosce finalmente che l’amore del Signore ha prevalso nel suo cuore: «C’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo». ma non potevo». Non dobbiamo quindi aver paura di percorrere questa strada verso le nostre fonti carismatiche, “in unione di menti e cuori”. Il Signore ha inviato il Paraclito, il suo Spirito, per ricordarci tutto ciò che ci ha insegnato. Non importa quale sia stata la vita prima dell’incontro con il Signore. Lui vuole usare la sua misericordia e regalarci «grazia sovrabbondante insieme alla fede e la carità che è in Cristo Gesù», per metterci al servizio della sua missione, per farci diventare i suoi compagni e affidarci il ministero della riconciliazione (cfr. 2 Corinzi 5, 18). Nostra Signora della Strada sia la nostra guida in questo percorso e ottenga per ciascuno di noi la grazia di camminare, instancabilmente, verso l’origine della nostra fonte di vita, l’amore del Signore Gesù.

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La missione della Compagnia. Intervista al generale dei gesuiti 
L'Osservatore Romano 
Come vede la situazione in Venezuela?
Nonostante tutto ho uno sguardo ottimista, anche se ignoro il futuro. Ma grande è ovviamente la preoccupazione per il succedersi delle notizie, come hanno espresso più volte i vescovi e i gesuiti del mio paese, il Papa, il cardinale segretario di Stato e in diversi altri modi la Santa Sede. Ma voglio sottolineare un fatto: il referendum del 16 luglio è stata la manifestazione civile più importante di tutta la storia venezuelana perché vi hanno partecipato sette milioni e mezzo di persone, cioè la metà dell’elettorato. Il percorso del confronto politico sarebbe l’unica via per fermare la violenza e fare veramente politica al servizio delle grandissime necessità del popolo.
Sono passati più di nove mesi dalla sua elezione: come li ha trascorsi?
Con grande pace, con molto lavoro e con la necessità di imparare tante cose nuove, rapidamente. Innanzi tutto con pace spirituale perché ricopro un incarico che non ho cercato e che nemmeno immaginavo potesse ricadere su di me: l’ho ricevuto dai miei fratelli nella congregazione generale, ma lo capisco e lo vivo come qualcosa proveniente dal Signore Gesù, che ho scelto come compagno più di mezzo secolo fa. Il lavoro è davvero tanto e non è semplice conoscere, da questa mia nuova posizione, un corpo così ricco e variegato come la Compagnia di Gesù e i miei compagni nella missione. Tutto questo a gran velocità, perché le decisioni non possono aspettare.
Cosa farebbe oggi Ignazio di Loyola?
Questa è la domanda che mi pongo ogni giorno, insieme a tutti i gesuiti. Innanzi tutto insieme ai tredici consiglieri generali che ogni settimana incontro regolarmente uno a uno, quando non siamo impediti dai rispettivi viaggi, mentre il martedì e il giovedì si riunisce tutto il consiglio. E tre volte l’anno, in gennaio, giugno e settembre, per un’intera settimana abbiamo un incontro allargato ai presidenti delle sei conferenze provinciali e a quattro segretari, in tutto ventiquattro persone.
A cosa mira questo metodo di governo così complesso e impegnativo, che immagino tuttavia molto utile per le decisioni che deve prendere il padre generale?
L’intento è quello di capire appunto le scelte da fare, perché per la Compagnia di Gesù, e dunque per tutti i gesuiti, è fondamentale e necessario essere creativamente fedeli alla propria vocazione e alla missione. Guardando a sant’Ignazio, dobbiamo di continuo percorrere il cammino del ritorno alle nostre fonti originali. Questo ha voluto il concilio Vaticano ii, e questa decisione è stata la salvezza per la vita religiosa, che nella visione cattolica è un’ispirazione dello Spirito.
Ci sono criteri per capire come realizzare questa fedeltà?
Guardiamo all’esperienza dei primi dieci gesuiti, quando Ignazio e i suoi compagni erano a Venezia per andare in Terrasanta. Il progetto si rivelò impossibile e si trasformò nel viaggio a Roma, decisivo per la Compagnia, come raccontano le fonti e come ha ricordato lo scorso autunno, la nostra trentaseiesima congregazione generale riunita per eleggere il preposito. Questo è il modello di Venezia: l’unione della mente e del cuore, la pratica di una vita austera, la vicinanza affettiva ed effettiva ai poveri, il discernimento comune e la disponibilità alle esigenze di tutta la Chiesa individuate ed espresse dal Papa.
Qual è la missione dei gesuiti?
Oggi la Compagnia deve trovare ogni giorno la strada per mettere in pratica la riconciliazione. A tre livelli: con Dio, con gli esseri umani, con l’ambiente. Siamo collaboratori della missione di Cristo, ragione d’essere della Chiesa di cui siamo parte. E proprio l’esperienza di Dio ci restituisce la libertà interiore e ci porta a rivolgere lo sguardo a chi è crocifisso in questo mondo, per capire meglio le cause dell’ingiustizia e contribuire a elaborare modelli alternativi al sistema che oggi produce povertà, disuguaglianza, esclusione e mette a rischio la vita sul pianeta. Dobbiamo così ristabilire una relazione equilibrata con la natura. Contribuire a questa riconciliazione significa anche sviluppare le capacità di dialogo, tra le culture e tra le religioni. Sono appena tornato da un viaggio in Asia: in Indonesia, il più popoloso paese islamico del mondo, ho conversato a lungo con un gruppo di intellettuali musulmani, e in Cambogia ho incontrato monaci buddisti, per testimoniare le possibilità di collaborazione tra le religioni come fattori che favoriscano l’intesa e la convivenza pacifica e come vie per la ricerca spirituale.
Com’è possibile questa riconciliazione?
È fondamentale la conversione: personale, comunitaria “per la dispersione”, ad dispersionem, un termine che significa la necessità apostolica della missione, e istituzionale, per riorganizzare le nostre strutture di lavoro e di governo rivolte appunto alla missione. Che è propria di quanti si sentono chiamati a essere compagni di Gesù. 
L'Osservatore Romano

Lunedì della XVII settimana del Tempo Ordinario. Commento al Vangelo.



Si intravede Betlemme, e più in là anche il Golgota, e risplendono di Cielo nelle parabole che il Signore ci annuncia oggi. La grotta adattata a stalla dove Lui è nato, il monte dove l'hanno barbaramente crocifisso. C'è l'odore della piccolezza, dell'insignificanza e dell'irrilevanza secondo il mondo nelle parole di Gesù. E viene da chiedersi perché proprio Lui, Dio fatto carne, è dovuto entrare nel mondo dalla porta di servizio... In fondo, è la stessa domanda che risuona in noi con frequente regolarità quando le vicende della vita ci ricordano i momenti difficili e inaccettabili del passato. Quando un problema, un rifiuto, un'incomprensione ci gettano nello sconforto e, come un'onda possente, si abbatte su di noi la memoria delle umiliazioni e delle ingiustizie che siamo convinti di aver subito. Ci sono domande alle quali nessuno psicologo, nessuna religione orientale, nessuna ideologia sa rispondere. Le domande alle quali risponde oggi il Signore parlandoci del Regno dei Cieli. Per illuminare quanto ci accade sulla terra ci parla del Cielo. Nulla di quello che accade sulla terra è fine a se stesso ma tutto è legato al destino eterno e celeste per il quale siamo nati. Se il demonio ci chiude il Cielo, non sapremo dove stiamo andando, come andarci, e non capiremo neanche il perché della nostra storia. Per questo, le parabole di oggi sono la chiave per aprire le porte della prigione che ci tiene schiavi nella paura della morte. Non ci danno però risposte come fanno il mondo, la scuola, internet, gli scienziati e i filosofi, ma fotografano la realtà con un obiettivo che nessuno saprà mai inventare, capace di catturare in un solo fotogramma il passato e il presente, lasciando aperto il futuro in una promessa destinata a compiersi, al netto della libertà di ciascuno. Il seme più piccolo e il lievito recano in sé il potere più grande che, nel tempo, si rivela nei suoi frutti e nella massa che diventerà pane capace di sfamare. Così la promessa di Dio fatta ai Patriarchi, rinnovata al Popolo Santo, il più piccolo tra i popoli della terra, e compiuta nel Nuovo Israele che è la Chiesa: essa non era semplicemente la Terra di Canaan, ma il Cielo, conquistato da Gesù con la sua carne risuscitata dalla morte e offerta ad ogni uomo per mezzo del piccolissimo resto nel quale ci siamo tu ed io, piccoli e deboli, un nulla per il mondo. La promessa cioè, Come il granello di senapa e il lievito profetizzano nelle parabole, anche la promessa rivela il suo compimento, perché essa è Cristo. Egli infatti è il Servo nel quale Dio stesso si è incarnato per farsi il più piccolo della terra, scendere nella terra e nel pugno di farina che è la storia del mondo, unirsi ai più piccoli e insignificanti, e trasformarli in un Popolo robusto nella fede come un albero. Questa promessa, che reca con sé l'elezione, la chiamata e la primogenitura, ci raggiunge attraverso la predicazione della Chiesa; attraverso le parabole del Signore con cui raccoglie e illumina la nostra storia, essa ci chiama ogni giorno a fare memoria, celebrare e accogliere di nuovo il potere divino celato nella promessa perché si rinnovi in noi il suo compimento come una primizia del Cielo da annunciare e testimoniare a ogni uomo. "Avviene con il Regno di Dio come con un granello di senape e con un po' di lievito" (J. Jeremias): avviene cioè con il Regno di Dio come con il Mistero Pasquale di Gesù, e per questo possiamo dire anche che accade con il Regno dei Cieli come quello che è successo e succede in noi quando incontriamo e accogliamo il Signore. E' Lui infatti il Regno dei Cieli che "è dentro di noi", Lui morto e risorto per e con noi, e che ci dona il suo Spirito nella Chiesa. Parlandoci del Regno dei Cieli Gesù parla, dunque, di se stesso unito a ciascuno di noi, e così ci svela il senso profondo della nostra storia. Ciò che, infatti, resuscita la nostra vita abbracciandone ogni istante passato, presente e futuro è il rapporto intimo con Lui, per condividerne la missione e il destino. Il segreto della vita, del suo compimento e della sua pienezza, sta nello scendere con Lui all'ultimo posto. Perché è qui che si trova il Regno dei Cieli, l'opposto dei regni della terra. E lì in fondo, scopriremo che nel seme di senapa che è la nostra vita, vi sono scritti i nomi di tutti i pagani che Dio ha legato a noi fin dall'eternità. Con noi sono stati deposti nel seno di nostra madre un'infinità di persone. Nell'acqua del battesimo poi, è stata sigillata la nostra missione: con noi sono profeticamente scesi nel fonte tantissimi peccatori, anche il collega che non sopporti, anche il verduraro, anche il vicino che non ti saluta mai. Hai mai pensato a questo mentre ti guardi allo specchio e magari ti disprezzi? Hai mai pensato a questo quando guardi tua figlia, e la giudichi perché é così diversa da te che ti dà ai nervi, disordinata, sbadata, ancora tanto irresponsabile... Quale madre ha pensato a questo appena ha scoperto d'essere incinta? O le è venuta in mente la missione per la quale aveva appena dato alla luce suo figlio? Quale mamma ha sentito un fremito per la grandezza dell'opera che Dio aveva cominciato nel suo bambino piccolo come un granello di senapa, mentre lo allattava, lo imboccava e lo vedeva crescere come un albero e distendere i suoi rami? Forse ha sognato per lui un futuro di medico, di marito e padre, forse anche di prete, magari ha sperato che diventasse santo... Ma che in quel bozzolo d'uomo ci fossero impressi il destino e la salvezza di innumerevoli giapponesi, o australiani o kenyoti, con ogni loro nome scritto nel nome di suo figlio, e il giorno dell'appuntamento con lui già fissato dall'eternità, credo che poche madri ci abbiano pensato. Che l'identità di quel bambino era ed è di essere lievito che "una donna", proprio lei, la madre, avrebbe dovuto iniziare a "impastare con tre misure di farina perché tutta si fermenti"... E noi, abbiamo mai pensato che siamo "lievito", e che non c'è altra missione che compia la nostra vita, se non quella di essere "impastati" nel mondo dalla Chiesa nostra Madre? C'è un cammino che ci attende anche oggi, ed è quello che ci nasconde nel mondo pur non essendo del mondo. Ogni giorno Cristo ci condurrà uniti a Lui nelle umiliazioni, nell'irrilevanza, nell'anonimato, nei fallimenti, nelle frustrazioni, nella debolezza, nella solitudine, nell'incomprensione, nelle angosce, nelle sofferenze, nelle contraddizioni e nell'aridità, ovvero nella terra che accoglierà il seme destinato a salvare il pezzo di mondo che ti è affidato, e la farina dove sarà impastato il lievito per fermentare il lavoro, la scuola, le relazioni, il mondo intero. La parola tradotta con "annidarsi è un termine tecnico escatologico per indicare l'incorporazione dei pagani nel Popolo di Dio" (J. Jeremias). La missione della Chiesa, la nostra coincide con quella del granello di senapa: non a caso tutte le varietà di senapa appartengono alle "crocifere", che hanno fiori con quattro sepali e quattro petali disposti a croce! Salvati da Cristo e seduti alla destra del Padre con Lui, siamo chiamati a vivere ogni istante su questa terra regnando sulla Croce con Lui, per offrire a tutti gli uomini uno spicchio del Cielo che illumina ogni storia, perché tra le braccia di Cristo distese nelle nostre possano essere accolti nella misericordia.

sabato 29 luglio 2017

XVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) — 30 luglio 2017. Ambientale, commento al Vangelo e Lectio Divina.


Nella 17.ma Domenica del Tempo ordinario, la liturgia ci propone il Vangelo (Mt 13, 44-52) in cui Gesù racconta alcune parabole:
“Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra”.
Il Vangelo paragona il Regno dei cieli ad un tesoro nascosto o a una perla preziosa, il cui valore spinge, chi li trova, a vendere i propri beni per entrarne in possesso. Tale radicalità è causata dalla gioia che si sperimenta nello scoprire questo tesoro. Il Regno dei cieli, infatti, è felicità e pace, esso ci abilita a riconoscere ciò che è vero e a fuggire da quanto distrugge. Il Regno c’induce anche a sperimentare il perdono, schiudendoci la conoscenza delle Scritture e svelandoci la nostra identità profonda. Entriamo sempre più in questo Regno partecipando alla vita ecclesiale, alla liturgia, ai sacramenti e saremo gradualmente trasformati al punto da destare in noi un crescente interesse per il bene altrui. Mediante la Chiesa il Signore risveglia in noi energie e capacità inaspettate, ci fa evangelizzare cooperando con Lui alla salvezza eterna delle anime, come “pescatori di uomini”. E noi? Abbiamo, oggi, questa esperienza? La bellezza divina ha fatto sgorgare nella nostra anima la gioia e l’entusiasmo per ricercare il tesoro del Regno nella Chiesa, prima di qualunque altro interesse o impegno? O la noia e l’indifferenza ci obbligano a scusarci con un formale “Grazie m’interesserebbe, ma non ho tempo”? Chiediamo a Gesù Cristo che i nostri occhi si aprano e i nostri cuori s’infiammino di zelo.
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Commento al Vangelo della XVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) — 30 luglio 2017
“Avete compreso tutte queste cose?”. Questa domenica il Signore ci viene incontro chiedendoci se abbiamo preso-con noi le “cose nuove e quelle vecchie” che la Parola di Dio nasconde; se abbiamo discernimento per orientarci nella vita.
Esso, infatti, è la caratteristica fondamentale di ogni cristiano. Senza discernimento non si può seguire il Signore, si è vittime della storia e preda degli eventi, ripiegati su se stessi, ovvero incapaci di amare.
Vediamo, quanti “selfie” ci facciamo ogni giorno? Quanti ne scattano i nostri figli? Sembra che il senso e l’obiettivo di qualunque cosa facciamo sia lo scattarsi una foto e postarla. Viaggi e gite, pranzi e cene, magliette e gonne nuove, i pomodori piantati in giardino, perfino una corsa nel parco con il cane, tutto è irrimediabilmente destinato all’autoscatto, metafora triste dell’autocompiacimento che cerchiamo nelle cose e nelle persone.
Per l’uomo vecchio schiavo della carne e dei suoi desideri, infatti, tutto è “auto”: autostima, autogestione, autocoscienza, autoironia, autoerotismo, riflessi di una generazione affetta da un inguaribile autismo dell’anima.
L’altro è, semplicemente, uno specchio dove rifrangere la propria immagine; non esiste, vive nel prolungamento del proprio ego. Non serve neanche a farci una foto, oggi nemmeno un figlio…
Vive attaccato a un respiratore artificiale, lo sguardo dell’altro. Altro che Parola creatrice, sono gli occhi del mondo a dargli vita; una volta chiusi muore nell’insignificanza.
Anche noi abbiamo dato “valore” a “perle” finte, considerando un “tesoro” essere importanti per gli altri. E’ triste una vita stretta nel sandwich crudele del risparmio energetico di uno smartphone… Eppure è la vita di chi non “comprende” le Parole del Signore.
Ma anche oggi, come ogni giorno sino “alla fine del mondo”, il Signore “manda i suoi angeli a separare i pesci buoni da quelli inutili (secondo l’originale greco)”.
Hai dato valore a ciò che non ne ha? Rapidamente sarà “gettato nel fuoco ardente”, non ti preoccupare. Dove sono finiti i selfie che ti sei scattato una settimana fa? Nello stesso “trash” dove è finita quella gita e quella cena, il cestino dove forse, con la foto, hai gettato il tuo matrimonio, quell’amicizia, quel rapporto sessuale scatenato dagli ormoni in libera uscita.
La vita è seria, e porta con sé le conseguenze di ogni pensiero, parola e gesto. Non si scappa, o sono “buoni”, o “inutili”, cattivi e dannosi. Chi non ha discernimento continuerà a confonderli, prendendo un selfie appena sfornato sui social networks per compimento e felicità.
Ma non siamo nati per questo; piuttosto per esserne salvati dalla Chiesa, la barca che, con Cristo a bordo, solca il mare per approdare “all’altra riva”: “come infatti, il mare simboleggia il tempo, così la spiaggia indica la fine, e la riva segnerà che cosa la rete, cioè la Chiesa, aveva pescato” (San Gregorio Magno).
E che cosa aveva pescato? Noi, insieme ai fratelli. Anche le parabole di questa domenica, infatti, sono spiegate “in casa”, nell’intimità della comunità. Ci parlano della “gioia” di chi ha incontrato l’Amato che aspettava da sempre, l’unico che ha dato “valore” infinito alla sua persona, compresi i difetti, perdonando ogni peccato, e promettendogli una vita nuova e sorprendente, piena e felice nella sua compagnia. La vita che non si sazia di selfie, ma ha nell’altro il luogo dove compiersi nell’amore.
Il cristiano, infatti, ha “trovato” questo “tesoro” grazie alle indicazioni fornitegli dalla predicazione della Chiesa. Ha pregustato, infatti, la gioia della Torah che ha fatto di Israele un Popolo diverso da tutti gli altri.
Sul Sinai Israele ha “trovato” l’unica “perla preziosa” per la quale vale la pena vivere. Nella Parola è stato “conosciuto, creato, chiamato e giustificato”, e ha “compreso come vivere con discernimento.
Per questo, anticamente, ogni uomo conquistato dalla bellezza e dall’autenticità della predicazione e della testimonianza della Chiesa, iniziava in essa un cammino di conversione e purificazione per giungere alle nozze con Cristo, alla Nuova ed eterna Alleanza preparata per lui.
Non a caso, l’eucarestia che, nella Chiesa primitiva, dava compimento a tutto il percorso catecumenale, era un arcano, un “tesoro nascosto” che veniva svelato ai catecumeni nella notte di Pasqua, solo dopo che erano rinati da acqua e da Spirito Santo.
Bisognava uscire da se stessi, e “scavare” per “tirarlo fuori”, ovvero scendere i gradini che separavano dalle acque del battesimo. Solo così gli scribi, ovvero i giudei che si avvicinavano alla Chiesa, “divenivano discepoli del Regno dei Cieli”.
Per questo si mettevano alla scuola della Chiesa che, all’origine, veniva dalla circoncisione, olivastro innestato sull’olivo buono,  che per loro era proprio “come un padre di famiglia (secondo l’originale)” – la nuova famiglia cristiana che li accoglieva – “che estrae dal suo tesoro cose antiche e cose nuove”.  La Torah illuminata da Cristo, ecco il tesoro!
A tutto questo siamo chiamati anche noi, che battezzati lo siamo già. Ma se non percorriamo un serio cammino di conversione rischiamo di finire come i pesci “inutili” della parabola.
Gesù sta parlando ai suoi, a me e a te, non al mondo, che non capirebbe. E ci dice che nella Chiesa molti sono stati presi nella “rete” della predicazione. Questa era come una sciabica, e formava una parete nel mare: trascinata a terra raccoglieva tutto quello che vi trovava, anche le impurità e i pesci non commestibili.
Così, molti hanno ascoltato l’annuncio, ma, nonostante il catecumenato, e forse anche il battesimo, non si sono convertiti. Continuano a scattarsi selfie, frustrando l’opera di Dio e la missione per la quale sono stati chiamati.
E tu, ed io? Abbiamo trovato il “tesoro”? Siamo, cioè, docili alla vanga della Parola e della guida della Chiesa che “scavando” ci educa per tirare fuori il meglio da ciascuno di noi, ovvero la nuova natura di figli di Dio plasmata dalla Parola e dai sacramenti?
Accettiamo che gli “angeli”, ovvero gli apostoli, ci visitino sulla “riva” delle nostre storie, e ci illuminino “separando” le opere buone e commestibili per gli altri dalle “inutili”, che, come il sale che ha perduto il sapore, non hanno alcuna utilità per la salvezza nostra e degli altri?
Stiamo “cercando“, prima e più di ogni altra cosa, la “perla preziosa”, ovvero il Regno di Dio e la sua Giustizia, per sperimentare il perdono e camminare in una vita “giusta” e crocifissa nel dono di noi stessi? Oppure cerchiamo la nostra giustizia, come il fariseo di un’altra parabola? Lo possiamo vedere se, tornando a casa dalle celebrazioni, siamo spinti a perdonare oppure no.
Abbiamo una missione, questo è il cuore del discernimento. E per il suo compimento essa tutto concorre al bene. Anche la solitudine, il disprezzo, le frustrazioni. Perché chi ha trovato la “perla preziosa”, che in epoca di Gesù era il massimo della ricchezza, uno status symbol come potrebbe essere una Ferrari; non ha bisogno di niente altro, mentre il discernimento la sa riconoscere con la sapienza divina.
Ha celebrato le nozze nell’amore che non si corrompe, e può lasciare tutto, vendere ogni bene, ma non per un eroismo moralistico o sentimentale, ma in virtù dell’evidenza che si impone nell’esperienza. Perché la vita è una Pasqua, va verso verso il Cielo, dove ci attende Cristo!
E’ felice, “pieno di gioia” si spoglia anche di se stesso, come San Francesco. A questo siamo chiamati, alla felicità che nessuno potrà mai toglierci, che sorge dalla certezza di essere per Cristo la “perla preziosa” per la quale ha dato tutto se stesso, il “tesoro nascosto” nel campo del demonio, per il quale si è nascosto anch’Egli nel sepolcro e così riscattarci. E farci risorgere con Lui.
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Lectio divina sulle letture della XVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) — 30 luglio 2017
di Francesco Follo
1) Il Tesoro della vita
Il Vangelo di questa domenica ci propone la parte finale del capitolo 13 del Vangelo di San Matteo, in cui sono narrate le parabole che paragonano il Regno di Dio a un tesoro, a una pietra preziosa e a una rete gettata nel mare che raccoglie ogni tipo di pesce.
Mentre, la parabola della rete ci ripete che il momento del giudizio è alla fine dei tempi e c’è un tempo dedicato alla penitenza, le parabole del tesoro e della perla ci ricordano non solo la necessità di fare uso anche delle ricchezze terrene pur di poter entrare nel regno dei cieli e gioire di questa appartenenza. Questi due brevi racconti ci insegnano soprattutto che Gesù, il Salvatore dell’uomo, viene per offrire ad ogni uomo che geme e soffre per il suo domani, il vero tesoro, la vera perla che assicura la felicità: il regno di Dio. Il Regno di Dio vale più delle cose, più della vita. Ha un valore primario per cui si deve essere pronti a sacrificare ogni altra realtà. Il Signore, la sua amicizia, il suo amore, la salvezza eterna sono il tesoro che nessuno può rubarci. Dicendo che c’è chi dà la vita per un tesoro e, oggi, Cristo si offre a noi come tesoro della vita: sappiamolo scegliere.
In effetti, con le due brevi parabole del tesoro nascosto nel campo e della perla diinestimabile valore il Messia insegna due cose.
La prima è che il Regno richiede una scelta decisa e rapida: come quella dell’uomo che subito vende tutti i suoi averi per comprare il campo con il tesoro, o come un mercante che, senza perdere tempo vende tutto quello che ha per acquistare una perla di valore eccezionale.
La seconda è che la scelta, che implica un distacco totale, scaturisce dall’aver trovato qualcosa di valore inestimabile. E’ questo l’insegnamento vero della parabola. Il motivo che spinge il discepolo a lasciare è la gioia di aver trovato il tesoro della vita Il motivo della gioia è esplicito nella parabola dell’uomo che compra il campo: “Poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi”. Il Regno di Dio è esigente, ma trovarlo è il centuplo e la vita eterna.
Mi spiego meglio. Le due parabole descrivono due figure diverse: la prima ci racconta di un contadino che lavora in un campo che non è suo, la seconda ci parla di un mercante che è davvero molto ricco. Ma, secondo me, questi due personaggi sono i protagonisti soltanto in superficie. I veri protagonisti sono il tesoro e la perla, che seducono di due uomini, affascinandoli. Il contadino e il mercante agiscono, perché totalmente “afferrati” dal tesoro e dalla perla, in cui si sono imbattuti. Se riconosciamo che la perla preziosissima, il tesoro inestimabile è Cristo ed il suo Regno, capiamo anche che il Redentore non dice una cosa ovvia: è ovviamente un vero affare fare comperare qualcosa che ha una valore superiore a quelle che paghiamo. E’ straordinario che con l’offerta di quello abbiamo non solo abbiamo di più, ma siamo di più: figli di Dio, perché abbiamo “guadagnato” il tesoro della vita: Cristo. In questo caso non è solo un colpo di fortuna, è una grazia stupenda alla quale corrispondere con pronta decisione ed abbandono totale.
2) Il vero guadagno
Un esempio di questa decisione e di questo abbandono di ciò che si ha ci viene da esempio San Paolo. Questi scrive: “Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo”(Fil 3,8). Quest espressione: “Guadagnare Cristo” presenta qualche stranezza. In genere si dice di guadagnare qualcosa, o anche guadagnare un traguardo, ma non una persona. Se prestiamo attenzione al verbo greco katalambàno possiamo forse riconoscere in esso una nota di aggressività, quasi di prepotenza. Tant’è che alcuni traducono: “Continuo la mia corsa per tentare di afferrare il premio, perché anch’io sono stato afferrato da Cristo Gesù” (Fil 3, 12).
Sinceramente parlando, mi piace questa interpretazione del verbo scelto da Paolo, perché indica che per essere cristiani ci vuol della forza di carattere: la violenza che egli ha sfogato contro i cristiani e contro Cristo prima della sua conversione ora Paolo la mette a servizio della verità. Non è forse vero che anche Gesù ebbe a dire: “Dai giorni di Giovanni il Battista il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono” (Mt 11, 12)?
Nel brano di lettera ai Filippesi che ho citato poco sopra, l’Apostolo delle Genti riconosce di essere caduto in un tremendo errore; si rende conto di aver sposato una causa sbagliata. Ora lui, illuminato da quella stessa luce che in un primo momento lo aveva accecato, confessa che quello era un falso guadagno, anzi un guadagno dannoso, alludendo ovviamente ad ogni privilegio di nascita e di educazione, ad ogni sforzo religioso e morale.
In questa rilettura della conversione di Paolo vediamo il frutto della grazia che guarisce, sprigionandosi dall’evento della passione e morte di Gesù, ma vi possiamo riconoscere anche l’azione della grazia illuminante che può venire solo dall’evento della risurrezione di Cristo, dalla persona di Cristo risorto. L’essere stato violentemente scaraventato da cavallo a terra è solo un pallido segno della vittoria pasquale che Gesù ha riportato su San Paolo. Il suo incontro con Cristo sulla via di Damasco lo ha portato a formulare una nuova scala di valori, sovvertendo quella che precedentemente aveva caratterizzato la sua vita: ciò che sembrava guadagno ora è diventato perdita, quello che sembrava ricchezza ora è diventato spazzatura, quello che sembrava giusto ora è diventato ingiusto.
All’esperienza di San Paolo possiamo certamente accostare anche la nostra. In un momento della nostra vita, tutti siamo sollecitati dalla parola di Dio, tutti abbiamo incontrato Cristo che ci ha chiamati ad entrare in questo dinamismo della fede che salva e che è –prima di tutto- dono che scaturisce dal cuore di Dio e dal costato di Cristo. In un bel momento della nostra vita Cristo si è fatto incontro a ciascuno di noi.
La conseguenza che ne deriva è che un cristiano, per poter dire di essere tale fino in fondo, per poter dire di essersi formato alla scuola di Gesù, deve riprodurre in se stesso le fattezze di Cristo crocifisso, addirittura deve assomigliare a Gesù morto.
E per fare questo non dobbiamo essere persone eccezionali. Dobbiamo avere una sola pretesa: quella dell’umiltà crocifissa, come quella di San Paolo, che – presentandosi ai cristiani di Corinto avanzò un’unica pretesa: “Avevo infatti deciso di non insegnarvi altro che Cristo e Cristo crocifisso”. E per non predicare a vuoto aggiunge: “Mi presentai a voi debole, pieno di timore e di preoccupazione” (1 Cor 2, 2-3).
L’importante è proporre agli altri quello che abbiamo sperimentato su noi stessi, senza sottrarci al “comando dell’amore” che ci vincola fino al dono totale di noi stessi.
Una sintesi stupenda di tutto questo itinerario di ascesi al Regno, di questo esodo verso la Casa del Padre ci è data sempre da San Paolo, quando scrive: “Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere in Cristo Gesù” (Fil3, 13-14).
3) Il “guadagno” delle vergini consacrate.
Tuttavia, qualcuno potrebbe obiettare: se l’Apostolo delle Genti era completamente affascinato dal suo Signore. perché avrebbe dovuto sentire la necessità di “guadagnare” Cristo?
Cristo gli si era già rivelato chiaramente e gli aveva sconvolto la vita, riempiendola di gioia. Eppure, nonostante ciò, Paolo si sentiva “costretto” a guadagnare il cuore e l’amore di Cristo. L’intero essere di Paolo – il suo ministero, la sua vita e lo scopo intrinseco di essa – tutto era incentrato solo sul desiderio di piacere al suo Maestro e Signore. Tutto il resto era spazzatura per lui, persino le cose “buone”. Perché “occorre” guadagnare il cuore di Gesù? Non siamo già l’oggetto dell’amore di Dio?
In effetti, il Suo amore benevolo si estende a tutta l’umanità. Ma c’è un altro tipo d’amore che deve sempre crescere e “guadagnare” l’amato. E’ l’amore affettuoso per Cristo, simile a quello che c’è tra marito e moglie. Questo amore è espresso in modo sublime nel Cantico dei cantici. In questo libro, lo Sposo è ritratto come un tipo di Cristo, ed in un passo il Signore parla della Sua sposa così: Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, mia sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo, con una perla sola della tua collana! Quanto è soave il tuo amore, sorella mia, mia sposa, quanto più inebriante del vino è il tuo amore” (Ct 4, 9-10).
La Sposa di Cristo è la Chiesa, che brama piacere al suo Signore. Nella Chiesa questa sponsalità à vissuta e testimoniata in modo speciale dalle vergini consacrate, che sono chiamate a vivere l’amore a Cristo in obbedienza amorosa e confidente, separandosi da tutte le cose terrene, perché il loro cuore è rapito da Cristo. Dicendo sì a Cristo si sono lasciate “rubare il cuore” da Lui e sono chiamate a concentrarsi solamente su di Lui e, in Lui, amano il prossimo, servendolo con gioia.
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Lettura Patristica
San Giovanni Crisostomo (344/354 – 407)
In Matth. 47, 2
Stimare il Vangelo al di sopra di tutto
Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo: l’uomo che l’ha trovato, lo nasconde di nuovo e, fuor di sé dalla gioia, va, vende tutto quanto possiede, e compra quel campo. Inoltre il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; e trovata una perla di gran valore, va, vende tutto ciò che possiede e la compra ” (Mt 13,44 -46). Come le due parabole del granello di senape e del lievito non differiscono molto tra di loro, così anche le parabole del tesoro e della perla si assomigliano: sia l’una che l’altra fanno intendere che dobbiamo preferire e stimare il Vangelo al di sopra di tutto. Le parabole del lievito e del chicco di senape si riferiscono alla forza del Vangelo e mostrano che esso vincerà totalmente il mondo. Le due ultime parabole, invece, pongono in risalto il suo valore e il suo prezzo. 
Il Vangelo cresce infatti e si dilata come l’albero di senape ed ha il sopravvento sul mondo come il lievito sulla farina; d’altra parte, il Vangelo è prezioso come una perla, e procura vantaggi e gloria senza fine come un tesoro. 
Con queste due ultime parabole noi apprendiamo non solo che è necessario spogliarci di tutti gli altri beni per abbracciare il Vangelo, ma che dobbiamo fare questo atto con gioia. Chi rinunzia a quanto possiede, deve essere persuaso che questo è un affare, non una perdita. Vedi come il Vangelo è nascosto nel mondo, al pari di un tesoro, e come esso racchiude in sé tutti i beni? Se non vendi tutto, non puoi acquistarlo e, se non hai un’anima che lo cerca con la stessa sollecitudine e con lo stesso ardore con cui si cerca un tesoro, non puoi trovarlo. Due condizioni sono assolutamente necessarie: tenersi lontani da tutto ciò che è terreno ed essere vigilanti. “Il regno dei cieli” – dice Gesù -“è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; e trovata una perla di gran valore, va, vende tutto ciò che possiede e la compra” (Mt 13,45-46). Una sola, infatti, è la verità e non è possibile dividerla in molte parti. E come chi possiede la perla sa di essere ricco, ma spesso la sua ricchezza sfugge agli occhi degli altri, perché egli la tiene nella mano, – non si tratta qui di peso e di grandezza materiale, – la stessa cosa accade del Vangelo: coloro che lo posseggono sanno di essere ricchi, mentre chi non crede, non conoscendo questo tesoro, ignora anche la nostra ricchezza. 
A questo punto, tuttavia, per evitare che gli uomini confidino soltanto nella predicazione evangelica e credano che la sola fede basti a salvarli, il Signore aggiunge un’altra parabola piena di terrore. Quale? La parabola della rete. “Parimenti il regno dei cieli è simile a una rete che, gettata nel mare, raccoglie ogni sorta di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva e, sedutisi, ripongono in ceste i buoni, buttando via i cattivi” (Mt 13,47-48). In che cosa differisce questa parabola da quella della zizzania? In realtà anche là alcuni uomini si salvano, mentre altri si dannano. Nella parabola della zizzania, tuttavia, gli uomini si perdono perché seguono dottrine eretiche e, ancor prima di questo, perché non ascoltano la parola di Dio; mentre coloro che sono raffigurati nei pesci cattivi si dannano per la malvagità della loro vita. Costoro sono senza dubbio i più miserabili di tutti, perché, dopo aver conosciuto la verità ed essere stati presi da questa rete spirituale, non hanno saputo neppure in tal modo salvarsi.
Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi

venerdì 28 luglio 2017

L'eremita che costruiva monasteri nel deserto



Ritratto di Matta el-Meskin teologo, mistico e asceta della Chiesa copta i cui fedeli in Egitto sono vittime di persecuzioni e attentati. 
La Repubblica

(Piero Citati) Oggi i copti, cioè gli egiziani di religione cristiana, sono tra i quattro e i dodici milioni, come racconta un bel libro di Gerard Russell, "Regni dimenticati" (Adelphi, traduzione di Svevo d' Onofrio, pagg. 388, euro 25). A partire dal quinto secolo, i copti si divisero e si combatterono, con una luce via via più oscurata. Emigrarono: in Irlanda, negli Stati Uniti, in Canada, in Australia; negli Stati Uniti esistono oggi duecento chiese copte e settecentocinquantamila fedeli. I copti accusarono il Concilio di Calcedonia di aver distinto tra la figura di Gesù divino e quella umana, mentre lui possiede una sola, unica, luminosa natura divina. Nel corso dei secoli, come i nestoriani, conservarono molte abitudini, che i cristiani, in Europa, avevano rifiutato: come il digiuno quaresimale, lungo oltre cinquanta giorni, il grande Venerdì durante il quale pregavano tutto il giorno: nella chiesa di San Macario la funzione iniziava all' alba, con candele rosa e appariscenti. Una delle preghiere imponeva quattrocento prostrazioni al suolo. C' era musica. Le sette vocali venivano intonate secondo una sequenza, dal suono così dolce, «che la gente la preferisce al flauto e alla lira». La chiesa copta conservava il calendario dei Faraoni. Esso era computato secondo l' era dei martiri, che iniziava nel 284 d.C., con l' ascesa al trono di Diocleziano e i suoi massacri. Ogni copto doveva pregare sette volte al giorno, evitando l' alcol e il fumo. Digiunavano duecento giorni l' anno e alcuni, durante la quaresima, non mangiavano nulla da mezzanotte al tramonto. I rapporti con l' Islam erano discontinui. Nel 1919 un sacerdote copto predicò, per la prima volta, dal pulpito della più importante moschea egiziana, al-Azhari. Poi i copti vennero uccisi dai musulmani: sedici nel gennaio duemila; e ancora oggi, fino agli ultimi giorni, subiscono assalti sanguinosissimi. Il novantasei per cento dei musulmani pensa che i copti vadano cacciati all' inferno. Iussef Iskander, che da monaco prese il nome di Matta el-Meskin (Matteo il povero), nacque il 20 settembre 1919 in una cittadina del Delta. La madre era di una devozione estrema. Passava ore a pregare e a prosternarsi. Non smetteva mai di pregare, come avevano raccomandato i padri della Chiesa antichissima, i santi siriaci come Isacco di Ninive e i teologi bizantini. Sebbene fosse malata, si svegliava a mezzanotte, per dire il mattutino. Rimaneva in piedi e si prosternava per centinaia di volte. Quando era impedita dalla malattia, diceva una sola parola: la più santa che avesse mai udito: «Kyrie Eleison!»: la ripeteva e la ripeteva nelle sette ore delle preghiere del giorno e della notte. Fin da bambino, Matta si sentiva estraneo ai fratelli e agli amici: era una vittima di Cristo. Non faceva che pregare insieme alla madre, saltellando di gioia. «L' unico desiderio che avevo era di donare a Cristo tutte le ventiquattro ore del giorno». Leggeva il Vangelo. Ogni sera, tra le cinque e le sei, camminava sulle rive del Nilo. Lavorava in una farmacia, tornando a casa verso le undici di sera. Recitava l' Ufficio delle Ore, bagnando il letto con le sue lacrime: «Dove trovarti o Signore? Dove trovarti?»; infine abbandonò dietro di sé tutte le sue cose, i suoi mobili, i suoi libri. Come un uccello che si slancia con gioia nelle altezze senza venire ostacolato dal suo peso: «Da lassù, vedevo le cose piccole, molto piccole, molto più piccole delle mie ali». Era libero in Dio. Si trasferì dapprima nel deserto isolato di Dajr Amba Sami' il, nel Faijum: poi si chiuse, per tre anni e mezzo nella amatissima vita eremitica. La natura era desolata e sofferente: le montagne aride. Le caverne erano piene di scheletri: l' acqua amara e inquinata; la terra piena di sassi, tranne poche palme. Durante la luna piena i lupi ululavano, giocando tutta la notte davanti alla grotta. Matta scavò una grotta nelle rocce; e il sabato sera vi restava in preghiera fino all' alba della domenica: silenzio, meditazione, lode di Dio. Non dormiva, perché il suo cuore batteva forte di gioia. Procedette sempre più verso l' interno dell' Egitto: a Deir aba Maqa, un monastero poverissimo, con otto monaci anziani; e a Wadi al-Rajjam, un luogo di austerità spaventosa. Matta e i suoi monaci restaurarono un vecchio edificio, costruirono un refettorio, una tipografia, un ospedale. Da giovane partecipava alla liturgia eucaristica: ora non si fermava a parlare con nessuno; attraversava il monastero in silenzio, senza che nessuno si accorgesse di lui, col volto che irradiava luce. Cominciò a costruire nuovi monasteri. Quando morì, nel 2006, ne aveva costruiti ottanta: c' erano ingegneri, insegnanti, medici, farmacisti, chimici. Tutti i monaci parlavano inglese: i novizi praticavano il lavoro manuale, che allontanava dalla mente la depressione e gli scrupoli. Intanto Matta scrisse moltissimo: centottanta libri, tra i quali un immenso commento al Vangelo di Giovanni e trecento omelie, le quali vennero amate da cattolici, protestanti, ortodossi, musulmani. Possedeva una mescolanza straordinaria di intelligenza ed eloquenza, di semplicità e complessità e una foga che abbracciava gli uomini e il mondo. Non aveva nulla contro ciò che si chiama moderno: introduceva nel deserto, fino ad allora inviolato, tipografie, ospedali, telefoni, computer; come accade anche nel monastero di Bose, il San Macario d' Italia. Come a Bose, nei monasteri di Matta el-Meskin, tutti lavoravano: qualcuno coltivava i campi, qualcuno insegnava o lavorava nella città più vicina, qualcuno studiava l' antico e il nuovo Testamento, qualcuno dipingeva icone secondo gli antichi modelli. Tra i moltissimi libri scritti da Matta el-Meskin, in Italia conosciamo l' Autobiografia (1978, pubblicata sotto il titolo I cristiani d' Egitto, a cura di Vittorio Ianari, Morcelliana, pagg. 208, euro 15); l' Esperienza di Dio nella preghiera (1999, Qiqajon, pagg.398, euro 26); Il cristiano nuova creatura (1999, Qiqajon, pagg. 138, euro 11); La gioia della preghiera (2012, Qiqajon, pagg. 156, euro 14). Nei monasteri e ad Alessandria Matta aveva letto moltissimo: non soltanto libri francesi e inglesi del nostro tempo; ma libri antichi, che costituivano il suo vero tempo: Isacco di Ninive, che lo influenzò profondamente, i padri del Terzo-Quarto secolo, Antonio, Macario, Pacomio, Giovanni Climaco, Giovanni Cassiano, Giovanni da Daljata, Isacco il Siro, e testi russi e ortodossi del diciannovesimo secolo, tra cui Serafino di Sarov, Joan di Kronstadt e Il racconto del pellegrino. Scriveva, ripeteva, si trasformava, come se fosse stato egli stesso Isacco di Ninive e Isacco il Siro o un loro misterioso affine. I temi di Matta erano quelli della grande tradizione patristica: lo svuotamento e la rivelazione di cui parla Paolo: l' accettazione e condanna della vita terrena: la via faticosa verso Dio: la divinizzazione: il silenzio di Cristo. Come diceva Paolo, «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me»; l' unità tra le chiese orientali e occidentali, realizzata dall' amore. «Dove c' è l' unità là c' è Cristo». Come nei tempi dell' infanzia e della giovinezza Matta pregava: «La preghiera, diceva, è l' unica ancora della mia vita: per scelta non per obbligo »: preghiera che non era solo gioia ma anche aridità e disperazione: preghiera incessante, ininterrotta, nella veglia e nel sonno, come diceva Luca. Allora, lo spirito stesso intercedeva con insistenza in lui nella preghiera, con gemiti inesprimibili; gemiti sia di Dio sia dell' uomo. Ripeteva senza fine una parola sola, che tornava a ripetersi per propria forza: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me». Alla fine l' attività dell' intelligenza e della volontà si scioglieva nel silenzio. Non era un evento, ma una condizione permanente. Talvolta sembrava, e forse era, aridità, angoscia, depressione, scoraggiamento: in realtà era sempre la pienezza molteplice e multiforme di Dio. Non esistono - diceva Matta - giorni più felici di quelli della contrizione, della penitenza, della povertà assoluta, quando sembra che Dio sia scomparso per sempre da noi. L' ego viene sconfitto e cancellato. «Sono stato - aveva detto Paolo - crocifisso in Cristo, sono morto in Cristo, sono stato sepolto in Cristo, sono risorto in Cristo, siedo nei cieli in Cristo».

Venerdì della XVI settimana del Tempo Ordinario. Commento al Vangelo.



Tra le “molte cose” che Gesù insegnava, il Vangelo ne registra una, trasmessa attraverso una parabola che racconta di un Seminatore che è “uscito a seminare” il seme della Parola. Immaginiamo che si riferisse alla terra che aveva davanti, la Galilea, fatta di pescatori e peccatori, uomini capaci di gesti generosi e coraggiosi come quando ci si infila nel mare per strappargli il cibo per vivere; ma anche testardi e duri di cuore, incapaci di comprendere la Parola. La Galilea, così simile alla terra della nostra vita, attraversata dalle "strade" del pensiero mondano dove corrono veloci le menzogne del demonio per scipparci la Parola ascoltata. Piena di "pietre", dure come i nostri cuori gonfiati dall'ego, che si infiammano al sole dei facili entusiasmi, mentre però occupano con la superbia spazi preziosi di terra sottraendoli alle radici del seme. Aggredita dalle "spine" acuminate come i pensieri che il demonio ci insinua di fronte alla precarietà per farci dubitare di Dio; si conficcano nell'intimo condannandoci all'avarizia e all'avidità con cui ci illudiamo di possedere cose e persone, mentre invece "soffochiamo" il seme che, fruttificando, ci darebbe libertà e pace. Ma proprio nella descrizione che Gesù fa della "terra" su cui è seminata la Parola è celata la chiave che ci apre all'intelligenza di tutte le parabole: a noi, infatti, è "confidato il mistero del regno di Dio", ovvero l'esistenza di un lembo di "terra buona" in mezzo alla "terra infruttuosa". Gesù sta parlando della Chiesa, del suo stare nel mondo come “terra bella” e feconda di "frutti" che hanno il sapore della vita eterna, il destino per il quale ogni uomo è venuto al mondo. Ma quello che Gesù dice della Chiesa vale anche per ciascuno di noi, che siamo chiamati nella Chiesa a "dare frutto" per la salvezza del mondo. Anche in noi il Signore ha visto un pezzo di "terra buona", così piccolo e nascosto che probabilmente nessuno ci ha mai fatto caso; neanche noi, che forse ci sentiamo "abbattuti" perché "incostanti" e fragili dinanzi ai problemi e alle sofferenze, induriti nell'orgoglio e schiavi delle concupiscenze. Ma il Vangelo di oggi ci annuncia che in noi c'è un frammento di Paradiso, e lì Gesù vuol seminare la sua Parola! La natura umana, infatti "non è interamente corrotta: è ferita nelle sue proprie forze naturali, sottoposta all’ignoranza, alla sofferenza e al potere della morte, e inclinata al peccato (questa inclinazione al male è chiamata « concupiscenza »)". Ma "il Battesimo, donando la vita della grazia di Cristo, cancella il peccato originale e volge di nuovo l’uomo verso Dio; le conseguenze di tale peccato sulla natura indebolita e incline al male rimangono nell’uomo e lo provocano al combattimento spirituale" (Catechismo della Chiesa Cattolica 405). In virtù del battesimo “il sasso può diventare una terra fertile, la strada non essere più calpestata dai passanti e diventare un campo fecondo, le spine essere sradicate e permettere al seme di dare frutto liberamente” (San Giovanni Crisostomo). Ma perché il battesimo fruttifichi abbiamo bisogno di convertirci accompagnati dalla Chiesa, dove imparare a cacciare “satana” sempre pronto a “portare via la parola seminata in noi”. Occorre vincere l’“incostanza” togliendo una ad una le “pietre” dal cuore perché in esso la Parola possa mettere “radici” e resistere senza “abbattersi” “al sopraggiungere di qualche tribolazione o persecuzione a causa della parola”. E' necessario cambiare mentalità togliendo le “spine” del pensiero mondano, perché la Parola non resti “soffocata” dalle “preoccupazioni del mondo, dall'inganno della ricchezza e da tutte le altre bramosie”. Allora, rinati in Cristo come figli del Regno, offriremo al mondo i suoi stessi frutti, “dove il trenta, dove il sessanta, dove il cento”.

giovedì 27 luglio 2017

Giovedì della XVI settimana del Tempo Ordinario.



Gesù ci ama infinitamente, è lo Sposo che ci fa beati perché, nella Chiesa dove ci ha chiamati per pura Grazia, si dona a noi rivelandoci ogni mistero del suo cuore. In essa possiamo infatti "ascoltare" la sua Parola mentre la "vediamo" compiuta nella nostra vita. In questo modo il Signore ci sono spiega le "parabole", immagini tratte dalla realtà che svelano innanzitutto i pensieri dei nostri cuori bisognosi del suo perdono, per poi illuminare quelli di ogni uomo. Anche noi eravamo meritevoli d'ira, come tutti, ma nelle viscere di misericordia della Chiesa il Signore ci ha aperto occhi e orecchi per mezzo dello Spirito Santo: quando infatti l’uomo trasgredì il comando del Signore, il diavolo ricoprì con un oscuro velo la sua anima. Ma intervenne la Grazia che strappò quel velo, in modo che l’anima, restituita alla purezza originale e alla forma della propria natura, cioè di creatura pura e irreprensibile, potesse fissare per sempre con occhi puri la gloria" di Cristo. "Pur vivendo ancora sulla terra, abbiamo in cielo la nostra cittadinanza, vivendo secondo il nostro uomo interiore come se già fossimo nell’eternità"; perché i cristiani, "entrano fin da questo mondo nel suo palazzo... Sebbene non posseggano ancora in pienezza l’eredità celeste, tuttavia dalla caparra dello Spirito Santo che li colma di fiducia, sono resi oltremodo sicuri, come se già fossero incoronati e possedessero le chiavi del Regno, perché, mentre ancora vivono sulla terra, sono posseduti da quella soavità e dolcezza, da quella forza che è propria dello Spirito... Per i cristiani chiamati a regnare nel secolo futuro, non vi sarà nulla di nuovo o inatteso, poiché già prima hanno potuto conoscere i misteri della grazia” (Da un’antica Omelia del IV secolo). Nella Chiesa Gesù ci rivela i misteri del Regno facendocene sperimentare un anticipo nella beatitudine celeste dell'amore che, riversato nei nostri cuori, si traduce in pensieri, parole e opere soprannaturali. Attraverso l'esperienza del perdono che abbraccia anche chi ha tradito, del dono di se stessi sino a caricare il peccato dell'altro, l'accettare malattie e umiliazioni sul lavoro, è come se stessimo già vivendo nel Regno, dove avremo l'abbondanza infinita ed eterna del suo amore. Per questo non mormoriamo se Gesù non ci spiega le cose come vorrebbe la nostra ragione; non ne abbiamo bisogno, perché ci rivela il senso degli eventi nella profondità del cuore mostrandoci come la "esah" del Padre è in ogni istante della nostra storia, la sua volontà d'amore attenta ai particolari con cui ci conduce al Cielo. Il senso profondo di ogni parabola infatti, è che Dio è fedele in ogni sua opera, perché sulla Croce ha svelato il mistero del suo amore che rovescia ogni prospettiva e criterio umano, muovendoci a compiere la volontà del Padre che la carne non può accettare. Chi ha il cuore indurito non lo sa, per questo di fronte al male e alla morte non ha parole, e si ribella. E noi siamo inviati a un popolo di dura cervice come una parabola che lo desti alla Verità. Chi non ha conosciuto Dio come suo Padre è idolatra, per questo, come gli idoli, "pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono... sono infatti diventati duri di orecchi, e hanno chiuso gli occhi, per non vedere con gli occhi, non sentire con gli orecchi e non intendere con il cuore e convertirsi, e io li risani". Ma a tutti è offerta una possibilità: la beatitudine dei cristiani, sigillo di autenticità impresso sull'amore di Dio Padre, la gioia autentica e la pace inossidabile che siamo chiamati a vivere e a rivelare mentre siamo crocifissi con Cristo. Solo sulla Croce, infatti, i nostri occhi sono beati perché vedono il compimento di ogni profezia nel sacrificio d'amore dell'Agnello che molti profeti e giusti hanno desiderato vedere; e sono beati anche i nostri orecchi perché nella Chiesa possono ascoltare l'annuncio della sua vittoria, primizia del Regno i cui misteri risplendono dinanzi al mondo nella vita nuova che si compie in noi.

mercoledì 26 luglio 2017

Mercoledì della XVI settimana del Tempo Ordinario. Commento al Vangelo.



Il Vangelo di oggi ci ricorda le Parole che Dio rivolse al suo Popolo in procinto di entrare nella Terra Promessa: "se non vi farete idoli... la terra darà i suoi prodotti... perché io sono il Signore vostro Dio che vi ha fatto uscire dall'Egitto, ha spezzato il giogo e vi ha fatto camminare a testa alta... ma se non ascolterete... seminerete invano il vostro seme e se lo mangeranno i vostri nemici... sconterete le vostre colpe nel paese dei vostri nemici.. il vostro cuore non circonciso si umilierà e allora mi ricorderò dell'Alleanza" (Lev. 26). La Parabola del Seminatore ci annuncia che Dio non ha rotto l'Alleanza con noi, idolatri per aver indurito il cuore alla sua voce ascoltando la parola velenosa del maligno. Nella semina della Parola che è l'evangelizzazione della Chiesa, Cristo viene a cercarci nella terra del nostro esilio, infeconda perché seminata con la menzogna satanica dell'idolatria. Anche oggi il Signore visita la terra che, attraverso la storia di umiliazioni e fallimenti, ha preparato perché accolga l'annuncio del Vangelo. Anche oggi esce il Seminatore e al suo passaggio stilla l'abbondanza di frutti: la predicazione infatti ci annuncia Cristo, il seme gettato sulla strada, tra sassi e spine. Accolto con entusiasmo e, nel volgere di pochi giorni, gettato fuori dalla città carico della Croce, cinta la testa da una corona di spine, tra insulti e sputi lanciati come pietre al suo passaggio, il Seminatore si è inoltrato sulla strada preparata dai nostri peccati per seminarvi la sua vittoria. E l'Agnello si è lasciato immolare sul Golgota, trasformato in un giardino dal suo corpo in esso sepolto, la terra buona che, nella sua risurrezione, ha dato il frutto della nostra salvezza. Per mezzo dei sacramenti Gesù attraversa la morte della nostra terra infeconda per estirpare con il perdono il seme dell'idolatria e deporvi quello della vita nuova nell'obbedienza. Allora coraggio, siamo il frutto del suo amore più forte del peccato e della morte. Per questo in Lui possiamo dare il frutto abbondante della fede seminata dalla sua Parola, opere che testimoniano la vita eterna in noi, che ci fa camminare a testa alta e discernere in ogni evento l'occasione per donare a tutti, secondo le loro necessità, il trenta, il sessanta, il cento del suo amore.

martedì 25 luglio 2017

Building a Bridge.... per andare dove???

25 Luglio. San Giacomo Apostolo. Commento al Vangelo.



Il Signore aveva appena annunciato, per la terza volta, il suo destino: Passione, Croce e Resurrezione. Ma i loro interessi e le aspirazioni più profonde soffocavano le parole serie e gravi del Maestro. Il cuore dei più intimi di Gesù, di Giacomo e Giovanni, era come il nostro, piagato di vanagloria e di egoismo. Un'inguaribile tendenza a fare di tutto, anche del seguire Gesù, qualcosa che ci sia propizio e soddisfi i nostri bisogni, affettivi e carnali, per sentirci vivi. Nelle parole, lacci. Negli sguardi, ventose. Negli atteggiamenti, esche. Nelle opere, catene. Ci diciamo pronti a qualsiasi cosa, a "bere qualunque calice", ma è per "sedere alla destra e alla sinistra" di chi possa assicurare un posto di prestigio nella vita. Nulla in noi è gratuito perché, ingannati dal demonio, scambiamo Dio con "io". Per questo, nella "madre dei figli di Zebedeo" possiamo rintracciare le sembianze di ogni nostra madre che, avendoci concepito nel peccato, ci ha trasmesso desideri e obbiettivi limitati alla carne che, una volta raggiunti, ci lasciano più vuoti di prima: "studia figlio mio, cercati una brava ragazza, e un posto fisso mi raccomando, e una casa che il mattone è per sempre; e risparmia, accumula, che non si sa mai nella vita...". Eppure, anche sotto ciò che nostra madre ci ha insegnato a "volere che il Signore ci faccia", si cela in noi il desiderio di partecipare a qualcosa che non muoia e non ci faccia preda degli eventi, di relazioni stabili e durature. Ma "Gesù esaudisce le sue promesse, non le nostre attese" (S. Fausti), perché è Dio, quello vero a cui possiamo assomigliare, l'ecce homo nel quale siamo stati creati e ricreati, non il feticcio che immaginiamo; non il Messia che instauri un regno umano dove, come Giacomo e Giovanni pensavano, possiamo dominare con Lui su tutto e tutti. Cristo non ha il "potere" mondano che esige di "essere servito", ma quello celeste e scandaloso di "servire" che, attraverso la Chiesa, viene anche oggi a donarci con la Vita Eterna, l'essere più profondo che riordina ogni relazione nella disciplina dell'amore. La Grazia di dare la vita, amare, anche quando non si è amati, anche quando si è disprezzati, come ha sperimentato San Giacomo, che ha offerto se stesso nel martirio d'amore; invece del primo che la carne desidera, ha occupato l'ultimo posto, il più vero, il più felice perché è il posto di Cristo, dove per salvarci ha bevuto sino in fondo il calice che gli abbiamo porto ricolmo dei nostri peccati. Lo stesso calice è preparato per noi nella Chiesa, dove tra i fratelli nulla è come nel mondo di chi brama potere e successo. Essa è la Madre che ci gesta per non seguire più i desideri della nostra madre nella carne porgendoci il calice del sangue di Cristo che ha distrutto il peccato e ci colma della sua stessa vita più forte della morte infondendo in noi il potere di servire ogni uomo bevendo il calice della sofferenza che l'amore suppone. Per questo ogni giorno è pronto per noi un calice con il quale Gesù ridesta la chiamata a seguirlo che raggiunse anche Giacomo sulle rive del mare di Galilea. Lui ha il potere di farci vivere all'ultimo posto dove servire chi ci è accanto contemplando, come Giacomo, nella Trasfigurazione del Signore il suo potere che trasforma anche noi, pavidi e incoerenti che si addormentano nel Getsemani, in apostoli capaci di pazienza nelle sofferenze e nelle persecuzioni per annunciare il Vangelo compiendo i miracoli dell'amore che sovrabbonda in noi. Forse non saremo inviati in Spagna come Giacomo, ma di certo sino agli estremi confini della terra e della vita di chi ci è accanto. Certo, soffriremo delusioni e fallimenti come l'apostolo ha patito l'insuccesso della sua predicazione. Ma apparirà anche a noi la Vergine Maria, sul pilastro della Croce come apparve a Giacomo in quel di Saragozza: coraggio, non siamo soli nella missione che ci è affidata. Maria è con noi per consolarci e sostenerci affinché con la Chiesa di cui è immagine, possiamo bere il calice del dolore e del peccato di ogni uomo per testimoniare la vittoria di Cristo contro cui il veleno di cui è colmo non ha potere.