venerdì 22 agosto 2014

Se frammentiamo la maternità



Il processo di generazione. 

Vita e Pensiero. Pubblichiamo quasi integralmente un articolo apparso sull’ultimo numero della rivista «Vita e Pensiero» (3/2014). L’autore, nostro collaboratore, è membro del Consiglio direttivo della Pontificia Accademia per la vita e direttore del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
(Adriano Pessina) Fin dal 1987, attraverso il pronunciamento della Congregazione per la dottrina della fede — Donum vitae — la Chiesa si era pronunciata contro ogni forma di fecondazione extracorporea, omologa ed eterologa. Quel documento si faceva, e si fa, interprete anche di molte annotazioni filosofiche, e antropologiche, che individuavano nelle tecniche riproduttive, al di là delle buone intenzioni degli aspiranti genitori, un vero e proprio stravolgimento della generazione umana. Di quelle riflessioni c’è ancora memoria? 
Non tutte le tecniche si equivalgono, e non si può negare la differenza accentuata che distingue l’omologa dall’eterologa, e questa dalla maternità surrogata: ma tutte espongono la procreazione umana a una metamorfosi perché delegano l’atto della generazione alla medicina. La cronaca chiarisce più delle argomentazioni. 
Lo “scambio” degli embrioni, scoperto lo scorso aprile in un ospedale romano, ha trasformato una fecondazione omologa in un’involontaria maternità surrogata. Situazione tragica: due donne vivono la loro maternità portando in grembo l’una i figli dell’altra, ma purtroppo solo in un caso la gravidanza continua, mentre nell’altro si interrompe. Così nessuna delle due donne vive pienamente il processo della propria maternità: la prima, perché nella gioia della gravidanza non può dimenticare che i suoi embrioni sono morti e che i gemelli che porta in grembo non sono realmente figli suoi; l’altra, perché la sua gravidanza si è interrotta e non può ignorare che i suoi gemelli, tanto desiderati, sono in un altro grembo. 
Chi è la madre e che cosa vuol dire essere madre? Quanti significati di maternità dobbiamo inventare, a motivo delle tecniche che frammentano il processo della generazione umana?
Per quante variazioni si diano, il significato originario, quello che è il fondamento e il punto di riferimento di tutti gli altri (i filosofi lo chiamano l’analogato principale), si radica nella maternità che oggi definiamo biologica, ma che è semplicemente la maternità in quanto tale. Certo è evidente che per essere una buona madre e un buon padre bisogna poi prendersi cura, amare e crescere un figlio e che questi gesti sono compiuti con generosa e meritoria disponibilità anche da chi non ha generato, ma ha adottato un bambino. Tuttavia questo non deve farci dimenticare che il significato educativo, formativo, affettivo di maternità e paternità sono e debbono essere l’espressione della responsabilità che ci si assume quando, con la fecondazione, si consegna al proprio figlio, attraverso il proprio patrimonio genetico, parte della propria storia e della propria carnale identità. 
Nella concreta trasmissione della vita, che mescola e unifica ciò che è separato e distinto, si radica quell’implicita promessa del «mi prenderò cura di te» che continua la generazione del corpo nei tempi dell’affetto, della crescita, della formazione del figlio. Frammentare le fasi della generazione con la tecnica significa certamente aprire la porta a trasformazioni difficilmente controllabili.
Ma se una coppia non può avere figli, perché impedirle di usare il materiale biologico di altre persone? In fondo, si dice, se un uomo e una donna si amano, che cosa importa da dove viene lo spermatozoo o l’ovocita con cui si genera l’embrione? Basta che un figlio sia intensamente desiderato e perciò amato. Non contano la genetica, la tecnica, il corpo: i valori sono altri, riguardano lo spirito, il legame e la complicità della coppia in questa decisione. Lo si dice, ma non lo si può del tutto pensare senza ingannarsi. 
Il corpo è così importante che la donna vuole sentire crescere dentro di sé, nel proprio grembo, il figlio che desidera: e per questo è disposta a far generare un embrione ricorrendo all’ovocita o agli spermatozoi di una persona estranea. 
Non si potrà certo avere l’esclusiva del materiale biologico che si sceglierà dal laboratorio specializzato che siamo soliti chiamare “banca dei gameti”: si potrà al più tentare di ricorrere a donatori che non siano totalmente dissimili nei loro caratteri ereditari a quelli dei futuri genitori. Perché il corpo e la genetica contano e ognuno di loro sa che il bambino che nascerà porterà in sé i tratti genetici del donatore X. Per quanto marito e moglie decidano insieme di fare questo passo, lei sa che diventerà madre grazie a X e lo sa anche lui, e non è così semplice riconciliarsi con l’idea, simbolica e reale, di aver accettato una sostituzione che non perde il suo fardello originario. 
Tutto ciò lo saprà un giorno anche il loro bambino e a quella X tornerà il suo pensiero quando rifletterà sulla propria identità, perché, piaccia o no, nel proprio corpo, nella propria salute o malattia, si profila l’ombra di un estraneo.
Non c’è bisogno di vedere il reality americano, trasmesso anche in Italia, dal titolo Generation Cryo, per comprendere gli interrogativi e le ansie di quei figli che inseguono la loro identità andando alla ricerca dell’anonimo genitore e alla scoperta dei “fratelli per caso” nati grazie agli spermatozoi dello stesso “donatore”: un estraneo, identificabile con il numero di una provetta, indifferente alla loro sorte, ignaro della loro esistenza, persino preoccupato di essere coinvolto in legami che non intende certo riconoscere, a cui peraltro debbono pur sempre la loro vita.
Questo disagio esistenziale dei figli è analogo a quello che sorge quando un bambino scopre di essere stato adottato: ma in questo caso egli non ha proprio nulla da rimproverare ai propri genitori adottivi, perché, a differenza di quanto capita nell’eterologa, non sono loro la causa della sua situazione: ne sono il generoso rimedio e per questo è facile la riconciliazione e la pienezza della vita familiare. E dovremmo chiederci perché uno Stato normalizzi e legalizzi tutto questo, permettendo a un uomo o una donna di mettere a disposizione spermatozoi e ovociti sapendo che da quel loro cosiddetto “dono” nasceranno figli di cui non si prenderanno mai cura, nemmeno qualora fossero in stato di necessità. E come sottovalutare il fatto che per usare ovociti femminili si devono sottoporre le cosiddette donatrici a una procedura invasiva, che strumentalizza il corpo femminile? Nessuno può e deve sottovalutare o minimizzare il valore del desiderio di maternità e paternità di chi incontra nel corpo ostacoli insormontabili alla generazione. Ma il desiderio, nemmeno quello delle coppie fertili, istituisce un diritto al figlio: i figli — cioè ogni uomo che viene al mondo — non sono oggetti o merci su cui accampare pretese. Tutelare i diritti dei figli significa sempre tutelare i diritti dell’uomo.
Piuttosto dobbiamo riflettere sulle due facce che ha ogni ostacolo che il desiderio incontra: da una parte non dipende dalla volontà — lo si trova — ma dall’altra è posto dal desiderio stesso quando diventa progetto di vita. Infatti, qualora si modificassero il progetto e il desiderio, l’ostacolo cesserebbe di apparire nella sfera dell’esistenza. Resterebbe là, opaco, ma fuori dal desiderio. Chi accetta quei limiti che non possono essere superati senza creare danni ad altri, li depotenzia, perché si riconcilia con se stesso. Ma chi non lo fa passa dal desiderio all’ossessione e diventa prigioniero dei propri limiti. Così, anche se non appare alla luce della ragione, perché occultata dalla forza della volontà, la generazione esogamica genera nell’inganno. Ci si inganna pensando di aver vinto degli ostacoli che invece permangono; si inganna il bambino, che forse faticherà a credere nella potenza dell’amore quando saprà di essere stato un modo per soddisfare il desiderio altrui; e si inganna il desiderio, che però resta sullo sfondo, ad ammonire della presenza dell’ostacolo. 
Dagli inganni si può e si deve uscire, e a volte i divieti servono proprio a questo: altre volte i divieti stessi alimentano il desiderio e la sua insoddisfazione, che diventano, appunto, ossessione.
Certo, ci si deve augurare che chi ha generato nell’inganno riscatti il suo desiderio con una nuova dedizione e doni al figlio gli strumenti per una crescita equilibrata, capace di fornirgli una gioia esistenziale che lo faccia sentire l’ospite amato che non ha bisogno di cercare altrove identità e sicurezza: semplicemente un figlio, al di là del sociale e del naturale. 
Ma perché mettersi in una strada simile, moralmente sbagliata, socialmente destabilizzante, quando possiamo evitarlo, e potremmo ricorrere all’adozione?
L'Osservatore Romano

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Eterologa, una pratica che può far soffrire la coppia

di F.Agnoli
Fallito il tentativo del ministro Lorenzin di mettere almeno alcuni paletti all’ inevitabile far west che deriverebbe dalla sentenza, la palla passa alle Camere, e, speriamo, anche al paese. Troppo importante che si apra un vero dibattito e si comprenda un po’ meglio quali orribili abissi si aprirebbero un domani procedendo in questa dissennata distruzione dell’ordine naturale.
Partiamo da quella che può essere una delle prime considerazioni che andrebbero fatte alle coppie che per desiderio di un figlio ricorressero all’eterologa.
Verrebbe da chiedere loro, in prima battuta: siete sicuri che quel figlio che desiderate “produrre” con seme o ovociti di un terzo estraneo non sarà un domani condannato 1) a farvi soffrire e 2) a soffrire lui stesso?
Partiamo dal punto 1, cioè dalle conseguenze negative dell’eterologa all’interno della coppia, esordendo con una citazione di Carlo Flamigni, celebre alfiere della fecondazione artificiale. Nel 2002, nel suo “La procreazione assistita”, scriveva: “Molto importanti e degni di attenzione sono i riferimenti alle risonanze negative che la donazione di gameti può far nascere sia nel padre che nella coppia”.
Immaginiamo dunque il caso in cui ad essere sterile sia il maschio. Osserviamo la coppia: entrambi desiderano un figlio, ma non in modo uguale misura; uno vorrebbe attendere e provare ancora per via naturale, l’altra incalza, sino ad ottenere ciò che vuole, spesso per sfinimento del compagno. Il quale si sente in qualche modo “colpevole”, e finisce per credere che il cedere riporti la tranquillità. Con il seme di un altro uomo nascerà un “figlio” che non ha nessun legame genetico, biologico, con lui. Che non è nato da un rapporto tra l’uomo e la donna, da una vera reciprocità, ma da un gesto da cui uno dei due partner è stato escluso (non senza patirne un’ inevitabile umiliazione).
In casa la festa di rito, e capiterà di certo che qualcuno, ingenuamente, gli dirà subito: “guarda un po’, non ti assomiglia per nulla”. Mettiamo ora le prime liti, tra moglie e marito, magari proprio a causa dell’educazione del figlio divenuto adolescente: è difficile capire che il padre si sentirà in molti momenti “secondario”, e che di fronte ad una tensione con la madre, ella dimostrerà di sentirsi l’unica vera genitrice, mentre lui tenderà a farsi da parte? “Non è neppure mio figlio, tienitelo tu! Sei tu che lo hai voluto!”. Escluso dal rapporto generativo, l’uomo passa facilmente dal sentirsi umiliato, al desiderio di vendetta (sulla moglie o sul “figlio” non suo); dall’abbattimento psicologico all’affermazione della sua irresponsabilità nei confronti del non-figlio.
Possiamo davvero pensare che un figlio che non nasce dall’unione della coppia, ma da un “adulterio” in provetta, non destabilizzi i rapporti di coppia? L’equiparazione che qualcuno tenta di fare tra ricorso all’eterologa e adozione è falsa: nell’adozione si salva un bambino che c’è già; si danno dei genitori ad un bambino che non li ha più; inoltre i coniugi partono e rimangono su un piano di parità (sono entrambi esclusi dalla generazione biologica). A ciò si aggiunga che, nonostante queste evidenti differenze, l’adozione, che pure è un bellissimo gesto di generosità, è questione da maneggiare con delicatezza, senza lasciarsi guidare dal solo romanticismo: l’accesso ad essa (a differenza dell’accesso all’eterologa) prevede un controllo multiplo – psicologico, socio-economico e giuridico – e nonostante questo talora esita in un fallimento adottivo, eventualità più frequente quando il figlio è stato “voluto” con gradi di convinzione diversi.
Tornando all’eterologa, la sua problematicità per il rapporto di coppia è così evidente che il partito comunista propose, invano, nel 1985, a prima firma Valentina Cardioli Lanfranchi, un disegno di legge in cui l’eterologa era permessa, ma era previsto il ricorso al consultorio familiare per ovviare (e come?) ai turbamenti che possono nascere nell’uomo “in relazione al senso di impotenza, all’angoscia di castrazione, alla vergogna della sterilità”. E questo per i numerosi allarmi lanciati da psicologi, psichiatri, esperti in generale.
Sempre negli anni Ottanta, infatti, Willy Pasini, psichiatra, sessuologo e direttore del Servizio di ginecologia psicosomatica e di sessuologia di Genova, riassumeva il dibattito in corso notando che “la maggioranza degli uomini percepiscono il donatore come un rivale nei riguardi del quale i sentimenti di inferiorità, di gelosia, per non parlare di delirio di persecuzione, possono scatenarsi”; e aggiungeva che vi sono donne che desiderano “una gravidanza per se stesse, non per la coppia”: esse “sono talvolta indotte a respingere il marito una volta che siano divenute gravide o che abbiano partorito”, divenendo “di più in più allergiche e frigide verso il marito”.
Una ricerca di O. Ferraris e D. Guerrini su 49 coppie che praticavano l’eterologa in un centro di Roma prima della legge 40/2004, rivela che “non è raro il caso di uomini in cui l’inferiorizzazione aumenta all’idea di una gravidanza da eterologa vissuta nei termini psicologici di una infedeltà coniugale: il 40% degli uomini intervistati non desidera essere presente alle applicazioni; analogamente il 37% delle donne non desidera che il marito lo sia”. Come inizio non c’è male!
Si potrebbero aggiungere tanti altri fatti: la presenza invisibile del donatore, nell’immaginario dell’uomo (come rivale) e della donna (come salvatore, ma anche come intruso); la conflittualità, rilevata nello studio sopra citato, all’interno di varie madri, tra il “desiderio del figlio e il rifiuto – conscio o inconscio – dell’inseminazione artificiale” (conflittualità psichica che sfocia persino in alterazioni ormonali, nel verificarsi di cicli anovulatori non presenti in precedenza, in sogni in cui il figlio potenziale tanto desiderato, viene respinto…).
Oppure si potrebbero citare almeno altri quattro fatti che dimostrano che il riconoscimento nel figlio dei propri tratti biologici (riconoscimento negato a uno dei due genitori nell’eterologa) non è affatto secondario e ininfluente, come sostengono invece i fautori dell’eterologa stessa. Il primo: tante coppie ricorrono alla fecondazione artificiale omologa, anziché all’adozione, proprio per avere “un figlio tutto nostro”. Il secondo: sin dal principio le banche del seme, per “rispondere” evidentemente ad una domanda esistente, e per provare a tamponare il fenomeno dei disconoscimenti paterni, hanno proposto anche la possibilità di selezionare seme con caratteristiche il più possibile simili a quelle del padre “sociale”. Il terzo: è già accaduto che donne ricorse alla fecondazione artificiale omologa, siano rimaste incinte per errore con il seme di un altro uomo (eterologa involontaria), e siano ricorse all’aborto per eliminare il nascituro (Corriere della sera, 11/12/2009). Il quarto: oggi, nei cosiddetti matrimoni gay, i due maschi che ricorrono ad ovulo e utero di donne estranee alla “coppia”, di norma mescolano il loro seme, affinché non sia chiaro quale dei due gay sarà il padre biologico, e non si creino quindi contrasti all’interno della coppia (essendo uno dei due uomini “genitore” per la legge, ma un semplice conoscente, per natura).
Proviamo ora a immaginare la situazione in cui sia la moglie ad essere sterile e si debba ricorrere all’ovulo di un’estranea. Difficile non capire che anche in questo caso si affacciano analoghi problemi: la possibilità che la donna si senta forzata dall’uomo, e non rispettata nella sua infertilità o sterilità; che viva un rapporto ambiguo con la madre biologica e con il figlio-non figlio…
A ciò si aggiunga almeno il fatto che la donna che ricorre ad ovuli altrui “non ha le condizioni per portare avanti una gravidanza, dunque deve sottoporsi a cure ormonali pesanti…con tutti i disagi e i rischi che ciò comporta”, mentre la donna che fornisce l’ovulo, se legata da parentela o da amicizia, interferisce nella famiglia adottiva in modo disastroso: “malgrado la migliore buona volontà sembra impossibile per la donatrice star lontano dal bambino nato da quel pezzetto di sé che è andato a crescere altrove. Tutte le esperienze in proposito dicono la stessa cosa: la donatrice si fa viva sempre più spesso nella famiglia del bambino, critica, consiglia, toglie autorità alla madre sociale. Un disastro” (Carlo Flamigni-Vegetti Finzi, in Volere un figlio; Carlo Flamigni, in Avere un bambino)
Per concludere questa breve analisi sul primo punto (gli effetti negativi sul rapporto di coppia indotti dall’eterologa), si può ricordare che una delle coppie che aveva promosso la battaglia per la fecondazione eterologa, arrivata alla Corte Costituzionale, al momento della sentenza (aprile 2014) non era più tale: i due si erano separati! (Il Foglio, 21/08/2014)