venerdì 29 agosto 2014

L'intervento del cardinale Bassetti al Meeting di Rimini (Testo integrale)


Il destino dell'uomo e la conversione pastorale. Dall'America Latina all'Italia, le sfide del mondo di oggi alla luce della "Evangelii Gaudium"


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Un abbraccio fraterno a tutti gli amici del Meeting che mi hanno fatto l'onore di questoinvito ad un incontro così ricco di suggestioni e di spunti di riflessione. Vorrei iniziare questo mio intervento con una citazione tratta da un volume, Tracce d’esperienza cristiana, in cui don Giussani raccolse le sue catechesi a Gioventù Studentesca.
Dice don Giussani:
E’ stato per l’uomo. L’uomo con i suoi interrogativi, la sua solitudine, i suoi desideri, i bisogni che nessuno gli ha mai potuto né per intero spiegare né risolvere, per quest’uomo è vissuta una persona che all’umanità tutta ha preteso dare se stessa come risposta. Tale persona è Gesù Cristo, e Gesù Cristo vive ancora.
In queste parole vi è il segreto degli inizi, più di cinquanta anni fa, di quella che ancora  oggi è la vostra storia. Una storia di incontro col "destino dell’uomo". Una Prospettiva aperta dalla carne di Cristo. Egli, infatti, è entrato nella nostra storia e con la sua Risurrezione ha reso contemporaneo l’orizzonte di eternità e di Amore che può cambiare la nostra vita, se ogni giorno diventiamo liberi di accoglierlo.
Il mio intervento di oggi ha al suo centro esattamente l’uomo, questo uomo per il quale Cristo si è fatto carne. Non poteva che essere così perché l’Evangelii Gaudium di papa Francesco altro non è che una riproposizione della missione della Chiesa verso l’uomo, così come egli appare a partire dallo sguardo di Cristo, con le sue insopprimibili esigenze di eternità e con la sua incalpestabile dignità.
Quale uomo?
Per prima cosa, ci dobbiamo domandare: qual è l’uomo verso cui andare? Di quali uomini e di quali donne ci parla l'Esortazione Apostolica di Francesco? Porsi questa domanda è fondamentale e la risposta è tanto semplice, quanto impegnativa. Le periferie esistenziali e materiali sono luoghi abitati dall’uomo così "come è" (nel bene e nel male), non “in astratto”, cioè dall’“uomo come dovrebbe essere”. Noi non dobbiamo cercare la compagnia dell’uomo “come dovrebbe essere”, ma dell’uomo e della donna così come essi sono, anche quando non condividono le nostre posizioni. In quest’uomo, pertanto, è possibile riconoscere – senza ipocrisia – i segni della  nostra stessa dignità e fragilità, grandezza e miseria, apertura e chiusura in noi stessi.
A questo proposito mi piace richiamare Paolo VI che, il 7 dicembre 1965, chiudeva il Concilio, con queste parole che necessitano ancora di essere meditate: La Chiesa del Concilio si è assai occupata, oltre che di se stessa e del rapporto che a Dio la unisce, dell’uomo quale oggi in realtà si presenta: l’uomo vivo,l’uomo tutto occupato di sé, l’uomo che si fa non soltanto centro d’ogni interesse, ma osa dirsi principio e ragione d’ogni realtà. Tutto l’uomo fenomenico, cioè rivestito degli abiti delle sue innumerevoli apparenze, si è quasi drizzato davanti al consesso dei Padri conciliari, essi pure uomini, tuttiPastori e fratelli, attenti perciò e amorosi: l’uomo tragico dei suoi propri drammi, l’uomo superuomo di ieri e di oggi e perciò sempre fragile e falso, egoista e feroce; poi l’uomo infelice di sé, che ride e che piange; l’uomo versatile pronto a recitare qualsiasi parte, e l’uomo rigido cultore della sola realtà scientifica; e l’uomo com’è, che pensa, che ama, che lavora, che sempre attende qualcosa, il “filius accrescens” (Gen 49,22); e l’uomo sacro per l’innocenza della sua infanzia, per il mistero della sua povertà, per la pietà del suo dolore; l’uomo individualista e l’uomo sociale; l’uomo "laudator temporis acti" e l’uomo sognatore dell’avvenire; l’uomo peccatore e l’uomo santo; e così via.
L’umanesimo laico profano alla fine è apparso in tutta la sua terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Cos’è avvenuto? uno scontro, una lotta, un anatema? poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani [...] ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo.
È l’uomo così "come è", "l’uomo fenomenico”, l’unico che il Samaritano incontra! Non vi stupisca la semplicità di questa affermazione: possiamo illuderci di trovare l’uomo “come dovrebbe essere” solo chiudendoci in quelli che papa Francesco definisce laboratori. Che tentazione terribile e antimissionaria ridurre la vita ecclesiale a laboratorio autoreferenziale, mentre l’uomo "così come è", non altro che è colui per il quale, come diceva don Giussani, è vissuto Gesù, pretendendo di dare se stesso come risposta. "All’uomo in quanto tale – è ancora Paolo VI che parla – è stata riconosciuta la vocazione fondamentale ad una pienezza di diritti e ad una trascendenza di destini; le sue supreme aspirazioni all’esistenza, alla dignità della persona, alla onestà libertà, alla cultura, al rinnovamento dell’ordine sociale, alla giustizia, alla pace, sono state [con il Concilio] purificate e incoraggiate".

In una parola, la trascendenza di destini è inseparabile dalla pienezza dei diritti. Ne consegue che Cristo come destino dell’uomo è testimoniato credibilmente dal nostro ministero solo se ci facciamo prossimi accompagnando il cammino di liberazione e di promozione della dignità. Se così non fosse noi stessi ci allontaneremmo dal nostro Destino. Cristo non solo è l’orizzonte ma è anche il limite ad ogni nostra tentazione ideologica o fatalista. Il destino del nostro prossimo è il destino del nostro incontro con Cristo: non possiamo in alcun modo voltarci dall’altra parte. È il chiaro insegnamento del Capitolo XXV di Matteo!
Non voltandoci dall’altra parte, ci capiterà spesso anche di assumere la sconfitta dell’uomo e in particolare la sconfitta dei poveri: la sconfitta inchiodata nelle carrette del Mediterraneo; nelle carceri sovraffollate del nostro paese; nei progetti di vita che la mancanza di prospettive lavorative impedisce di formulare; nei bambini che non vedrannomai la luce e in quelli che scappano dalla fame e dalla guerra; nelle donne umiliate e sopraffatte da una violenza cieca e discriminatoria e in quelle costrette a vendere il proprio corpo per un fine sessuale o addirittura come "incubatrici" di vite umane. Assumeremo la sconfitta dei poveri con la fortezza che viene dalla fede: dallaconsapevolezza che nella Risurrezione di Cristo, ogni vita è riscattata per sempre. Questo l’orizzonte non semplicemente delle nostre attese, ma del nostro impegno (“senza ritorno”, diceva don Mazzolari) a favore dell’uomo. Questa del resto, cari fratelli, è la vittoria che hasconfitto il mondo: la nostra fede (1Gv 5,2).
Quali sfide?
E allora, dopo questa ampia premessa, quali sono le sfide che l’Esortazione Apostolica Evangelii gaudium ci spinge a riconoscere nella società del nostro tempo? Prima di tutto, l'ho ripetuto molte volte in questo ultimo anno, bisogna acquisire la consapevolezza di vivere in un momento storico eccezionale e delicatissimo. Un momento storico caratterizzato da "profondi rivolgimenti culturali, geopolitici ed economici che, velocemente e bruscamente, stanno ridisegnando la geografia morale e culturale del mondo intero". 
Indubbiamente anche il titolo di questo incontro testimonia l'importanza di questo momento storico. Un momento in cui le sfide partono dall'America Latina e arrivano in Europa e all'Italia. Come capirete si tratta di una novità epocale. Così come è epocale la rinuncia di Benedetto XVI e il fatto che il Signore ci ha donato un papa "preso dalla fine del mondo". Oggi, sul soglio di Pietro, siede un figlio prediletto dell'America Latina. Un figlio di quel "continente della Speranza", come lo definì San Giovanni Paolo II, che fu evangelizzato attraverso una "straordinaria epopea missionaria", come evidenziò Benedetto XVI, e che oggi con le sue contraddizioni, i suoi colori, la sua povertà e le sue speranze, "guida" la Chiesa e si fa portatrice di un nuovo annuncio.
Un annuncio in cui non si può non ravvisare il "segno indelebile di Maria" e l'eredità  spirituale della Vergin Morena e di Nostra Signora de Aparecida. Un annuncio, che proprio per questo particolare profilo genetico, non può non essere gaudioso, materno, sapiente, pieno di comprensione verso i "piccoli" e intimamente caratterizzato dalla sobrietà. Una sobrietà che, a me pare, la società europea sembra aver smarrito a favore di uno stile di vita in cui l'essere umano assume, sempre più spesso, le sembianze di un individuo che vive per se stesso, costretto a godere – come se fosse preda di una sorta di schiavitù consumistica – dei beni che vorticosamente egli stesso produce.
L'Europa, oggi, è di fronte ad un bivio: cercare di ritrovare se stessa e uscire con coraggio dalla stagnazione in cui sembra essersi impantanata, oppure rassegnarsi ad un futuro incerto e marginale. Lo voglio dire con una serie di domande. Cosa è rimasto, oggi, dell'Europa di San Paolo, l'uomo delle "tre culture" – il giudeo che parlava in greco ed era cittadino romano – e dell'Europa di Sant'Agostino "l'africano-latino" che veniva battezzato a Milano da Sant'Ambrogio nella notte di Pasqua del 387? E cosa sopravvive, oggi, dell'Europa dei Santi patroni e dei monaci benedettini? Cosa resta dell'Europa del commercio e dell'aratro, della cultura e dell'operosità, della carità e della fraternità? Oggi, in definitiva, il Continente europeo ha la forza morale per parlare al mondo intero come ha fatto per secoli?
E lo stesso si può dire per il nostro Paese. L'Italia – il "giardino chiuso da' monti e dal suo proprio mare" come scrisse Bindo di Cione del Frate – il Paese dei Municipia e delle Pievi, delle città e delle Cattedrali, ha la capacità di ripensare se stessa e di superare quella uggiosa cultura delle fazioni e delle scomuniche reciproche che, di fatto, permette la sopravvivenza della logica delle oligarchie e delle corporazioni? Il processo di globalizzazione in atto è così dirompente che non si può più far finta di nulla. Non ci si può cullare solamente nel ricordo di un passato ricchissimo di esperienze,personalità e testimonianze di fede.
Questa è dunque la prima autentica sfida per il cattolicesimo europeo ed italiano. Riscoprire fino in fondo la nostra storia senza farci sconti e da qui ripartire per ravvivare la nostra presenza reale nella società. Una presenza vera, autentica, sincera, visibile, in ogni ambito pubblico e in ogni interstizio della società. A partire da quelli più lontani e poveri. Abbandonati da tutti. Fuori dai circuiti dei media. Ignorati da potenti e dai sapienti. Perché noi siamo chiamati a servire e non ad essere serviti! Solo così potremo essere autenticamente sale della terra, lievito per la società, esempio per le nuove generazioni. Da questo punto di vista, dunque, la testimonianza di fede che ci arriva con forza dirompente dall'America Latina ci invita, anzi, ci obbliga a guardare il mondo, la nostra società, la nostra Italia, da un altro angolo visuale, senza moralismi e al di fuori di ogni manicheismo dottrinale. Ci esorta con decisione a riscoprire noi stessi alla luce del Vangelo e ad uscire dalle nostre sicurezze che ci gratificano e che, a volte, bloccano la nostra azione missionaria.
Un'azione missionaria che, prendo spunto dalle parole di papa Francesco pronunciate all'Assemblea generale della Cei di maggio, non può non avere almeno tre grandi obiettivi, tre grandi orizzonti, tre grandi sfide: la famiglia, il lavoro, l'immigrazione. Oggi, come ha ben evidenziato Francesco, la famiglia è "maltrattata" e "disprezzata" da una cultura individualista e materialista che, confondendo desiderio e diritto, mercificando gli affetti e scartando i più deboli, rimuove la sua centralità nella società e riduce il matrimonio ad "una mera forma di gratificazione affettiva che può costituirsi in qualsiasi modo e modificarsi secondo la sensibilità di ognuno". Purtroppo, la velocità con cui si vivono i rapporti tra le persone assomiglia alla velocità con cui si consuma una cena ad una festa di gala: una grande aspettativa iniziale, un euforico intrattenimento e uno stanco commiato.
La famiglia, invece, è per definizione un luogo e un momento generativo, dove un uomo e una donna si aprono totalmente al disegno divino senza conoscerne i confini e i presupposti, senza calcoli e compromessi, riempiti solamente dell'infinito amore di Dio che si rivela nella loro vita attraverso un disegno provvidenziale. La famiglia è, dunque, il luogo dove si impara a convivere nella differenza e ad appartenere agli altri; dove i genitori trasmettono la fede ai figli e dove, soprattutto, "il luminoso piano di Dio" aiuta i coniugi a vivere il matrimonio "con gioia nella loro esistenza, accompagnandoli in tante difficoltà". 
Tra le molte difficoltà che affliggono la famiglia – su cui, come saprete, si rifletterà nel prossimo Sinodo – ce n'è una che mi sta particolarmente a cuore. Forse non sarà la più  importante ma senza dubbio è una di quelle che più risalta ai miei occhi di pastore. Mi riferisco alla difficoltà delle giovani coppie ad "essere" e a "pensarsi" come una famiglia. Da un lato, li vedo indugiare, dubbiosi, titubanti, increduli che formare una famiglia sia una cosa bella. Dall'altro lato, invece, coloro che decidono di dar vita ad una famiglia si trovano di fronte una serie di ostacoli veramente difficili da superare – come la casa, il lavoro, l'asiloper i bambini – che possono rendere la vita di coppia come un cammino faticoso e pieno diinsidie.
Ecco di fronte a queste giovani coppie noi tutti, pastori, educatori e autorità civili,  abbiamo delle responsabilità enormi. Non possiamo lasciare questi ragazzi – i nostri figli, i nostri nipoti – in balia degli eventi, in attesa che qualcosa di indefinito avverrà in futuro. Abbiamo un debito con questi giovani. E i debiti vanno saldati! Perciò è necessaria una nuova azione sia da un punto di vista pastorale che da un punto educativo. E ovviamente anche la politica non può sottrarsi. Non può voltare lo sguardo dall'altra parte e pensare che tanto ci sono i risparmi dei nonni!
Anche qui voglio porre delle domande. Quanta responsabilità ha, nella destrutturazione del nucleo familiare, un diffuso ceto intellettuale che per decenni ha visto nella famiglia il luogo d’origine di ogni autoritarismo e la fonte di ogni alienazione della persona? E poi: perché le generazioni più adulte non sempre sono riuscite a testimoniare la bellezza e la ricchezza della famiglia? E, infine, come è possibile costruire una famiglia se questi giovani, il più delle volte, hanno un'occupazione precaria e riescono con grandissima difficoltà ad accedere al credito per poter comprare non dico un'abitazione ma almeno un'utilitaria?
Questi interrogativi, aprono immediatamente la porta alla grande sfida del lavoro. Ed è necessario riportare alcuni dati. Le statistiche pubblicate dall'Istat sul tasso di disoccupazione giovanile in Italia lasciano sgomenti: il 43,7% dei giovani non ha un lavoro. È il dato peggiore dal 1977 ad oggi. Ma non solo, sempre secondo l'Istat, in Italia "nel 2013, il 12,6% delle famiglie è in condizione di povertà relativa (per un totale di 3 milioni 230 mila) e il 7,9% lo è in termini assoluti (2 milioni 28 mila). Le persone in povertà relativa sono il 16,6% della popolazione (10 milioni 48 mila persone), quelle in povertà assoluta il 9,9% (6 milioni 20 mila)".
Aggiungo inoltre che – sempre secondo la ricerca Istat – l’incidenza della povertà assoluta aumenta nelle famiglie con figli. Sono cifre terribili a cui non si può guardare con sufficienza. Questa crisi, infatti, sta acuendo le conseguenze dell’imperversare di una ideologia materialista e immanentista, nella quale il valore dell’uomo è commisurato al profitto che produce attraverso consumi e lavoro: chi non rientra in questo parametro è escluso e va scartato. Di qui il grido del papa: "Oggi dobbiamo dire ‘no’ a un’economia dell’esclusione e della inequità. Questa economia uccide!".
Questo ha un profondo e radicale significato sociale, poiché la terribile crisi che stiamo attraversando ha tolto gli ultimi veli alla possibilità di illudersi di vivere in una società in perenne crescita economica in cui tutti possono arricchirsi con facilità. Una società così non può crescere e, soprattutto, non è quella a cui un cristiano può rassegnarsi. È vero, l’Italia e l’Europa sono parte del villaggio globale ed è ancora più vero che ciò costituisce una opportunità inedita (per proporzioni e modalità) di incontro fra gli uomini e i popoli della terra: un fatto che rende più percepibile l’unità dell’intera famiglia umana. Non possiamo rassegnarci, però, a quella che Francesco ha chiamato la "globalizzazione dell’indifferenza". Occorre costruire, invece, la globalizzazione della tenerezza, della prossimità, della solidarietà. Perché non è vero che non ci sono alternative. 
L’uomo ha sempre trovato un’alternativa ai vicoli ciechi in cui si era cacciato. La creatività  e l’ingegno umano sono davvero grandi. Prendete ad esempio l’economia di comunione: 840 aziende nel mondo dimostrano che non è un'utopia una economia non fondata sull’avere ma sulla cultura del dare e dell’attenzione ai bisogni del prossimo. Ci vuole più coraggio! Molto coraggio! Io ringrazio il Signore di aver incontrato nella mia vita uomini come Giorgio la Pira che ci hanno fatto capire come le “attese della povera gente” sono il cuore della crescita sociale, civile e anche economica di un popolo. Su questo La Pira, al momento dei fatti della Fonderia delle Cure e del Pignone scommise senza riserve tutta la sua carriera politica. Era un fatto di coerenza di fede per lui, e quella sfida egli la vinse. Occorre opporre alla globalizzazione dell’indifferenza, la cultura e l’economia del prendersi a cuore!
Anche in questo caso voglio portare delle domande alla vostra attenzione. Quanto è profondo il legame tra la crisi morale dell'uomo moderno, preoccupato soltanto del proprio Io e del proprio ombelico, e lo sviluppo di un'economia senza cuore, che non si prende cura dell'uomo e della sua dignità? Quanto è diffuso nella nostra società quell'"uomo dell'avere" di cui parlava Mounier, quell'uomo avaro "che ha perso il senso dell'Essere e che si muove solo fra cose, e cose utilizzabili, private del loro mistero"?
Queste domande ci permettono di aprire uno sguardo su un fenomeno tanto drammatico quanto, per anni, considerato di secondaria importanza: quello dei migranti e dei rifugiati. Ebbene, la visita profetica del papa a Lampedusa e l’altissimo magistero che da lì ha profuso, ci dice qual è la prospettiva da cui guardare a questa cultura dell’indifferenza: riconoscere noi stessi come malati, noi stessi come attaccati a quelle false sicurezze, fragili, come bolle. Chiudersi al fratello che si vede significa, infatti, essersi già chiusi a Dio che non si vede (cfr. 1 GV 4,121).
Lampedusa ci dice che dobbiamo avere il coraggio di fidarsi di Gesù Cristo nel fare scelte di condivisione e di impegno a favore dell’uomo implicazioni profonde nel campo della bioetica e nella stessa vita sociale. La fiducia nell’intelligenza e nella libertà dell’uomo non è incompatibile, anzi si alimenta, con il riconoscimento che il valore irrinunciabile della dignità di ogni singola esistenza umana è un limite che non può e non deve essere superato. Giorgio La Pira in un incontro con i seminaristi quando ero Rettore al Seminario Minore di Firenze ci disse: "Avete visto che cosa ha causato la scissione dell'atomo ad Hiroshima e a Nagasaki? Quando l'uomo arriverà a manipolare le leggi fondamentali della vita, succederà qualche cosa di più terribile!". E ora ci siamo!
Fare riferimento al Nord e al Sud del mondo significa anche parlare della pace e della guerra, delle nuove persecuzioni e delle grande testimonianze di fede che molti nostri fratelli hanno reso al mondo intero, pagando con la vita il proprio incontro con Gesù. Che magnifica colpa aver incontrato Gesù nell'Eucarestia! Nella globalizzazione dell’indifferenza e nella debolezza delle istituzioni internazionali, le guerre si prolificano con intollerabili sofferenze, moltiplicate violazioni dei diritti umani e persecuzioni religiose: odio che produce odio e allontana le soluzioni. Anche il Mediterraneo, il grande Lago di Tiberiade di cui parlava Giorgio La Pira, attraversa una crisi di gravissima intensità che ha ripercussioni enormi e durature in tutto il mondo.
La politica internazionale vive le conseguenze di quella follia drammaticamente e profeticamente denunciata da san Giovanni Paolo II di rispondere alla sfida del terrorismo facendosi attirare sul terreno folle dello scontro di civiltà. Papa Wojtyla a tutto ciò aveva opposto la pretesa che la pace non è il frutto della guerra, ma della riconciliazione e del dialogo fra le religioni diverse come dialogo di tutti i credenti con Dio. E Francesco si muove con decisione su questa scia come è evidente dalla scelta pastorale di agire attraverso la preghiera comune dei credenti di diverse religioni e di portare all'evidenza di tutti le sofferenze che le guerre, tutte le guerre, infliggono alle vittime. La missione della chiesa e la conversione pastorale 
Per vivere in questo contesto la missione evangelizzatrice, cari amici e care amiche, papa Francesco con il suo ministero e in maniera ufficiale con la sua Esortazione Apostolica Evangelii gaudium ha introdotto la Chiesa in un una nuova fase di ricezione del Concilio Vaticano II e di riforma. La presente fase di ricezione del Concilio Vaticano II è marcata da questo pontificato che porta al centro il respiro delle periferie. Non a caso i cardinali sono andati a scegliere il papa “dalla fine del mondo”: portando le periferie al centro è come se la Chiesa si fosse dotata di una lente di ingrandimento attraverso la quale tutti possono contemplare e lasciarsi sorprendere da ciò che il Signore ha seminato durante cinquanta anni nel cammino delle Chiese e nella vita di tanti “discepoli-missionari”: frutti che ora vanno raccolti in una sorta di “sinfonia sinodale”, fra centro e periferie, fra Chiesa Universale e Chiese locali!
Ebbene, il dono-impegno che il Signore fece alla Chiesa attraverso il Concilio Vaticano II si chiama “Conversione pastorale”. La Conversione pastorale non è una riconciliazione con il mondo moderno, come pensa qualcuno e teme qualcun altro. È qualcosa di più consueto e radicale al tempo stesso: si tratta di aver restituito alla Chiesa la serenità di essere incarnata nella storia e la capacità di parlare i linguaggi della contemporaneità in continuo mutamento! La conversione pastorale è qualcosa di semplicemente evangelico. 
Sulla conversione pastorale vorrei ricordare che “pastorale” non è altra cosa che l’esercizio della maternità della Chiesa. Essa genera, allatta, fa crescere, corregge, alimenta, conduce per mano. Serve, allora, una Chiesa capace di riscoprire le viscere materne della misericordia. Senza la misericordia c’è poco da fare oggi per inserirsi in un mondo di “feriti”, che hanno bisogno di comprensione, di perdono, di amore. Non mi è possibile, per non abusare, della vostra pazienza parlare ancora a lungo e concluderò quindi evocando tre parole chiave che costituiscono a mio parere i cardini della conversione pastorale della chiesa cui tutti dobbiamo partecipare: Misericordia; Discernimento; Periferie.
Misericordia perché, come già aveva capito san Giovanni XXIII, oggi l’uomo (spesso solo, ferito, disorientato) più che di sentirsi dire – lo dicevo all’inizio – "come dovrebbe essere" ha bisogno di essere accolto così "come è". Come faceva Gesù: è l’accoglienza che salva, la misericordia, infatti, non è in contraddizione con la verità, è la verità! Gesù Cristo è la verità che ti viene incontro per mezzo della misericordia. Ecco perché il papa insiste nel farci capire che senza misericordia la correttezza formale dell’annuncio evangelico è totalmente muta (cfr. in particolare EG 3536; 4142; 165).
Discernimento perché la Chiesa deve continuamente capire, alla luce del Vangelo, chi sono coloro a cui è mandata e come farsi loro prossima. Ogni singola comunità cristiana deve
entrare in un processo di discernimento comunitario permanente per restare fedele alla chiamata evangelica nei contesti in cui vive e occorre superare ogni forma di clericalismo. Chi esercita qualsiasi ministero di magistero nella Chiesa (dal catechista, al teologo, al prete, al vescovo) e non educa la comunità al discernimento evangelico e non sa ascoltarne con devozione la voce, non fa un servizio né alla Chiesa né alla Verità, perché il Vangelo è luce sui passi dei discepoli-missionari. Chi parla del Vangelo a una comunità cristiana senza tener conto di ciò che nella Comunità si vede e si vive alla luce del Vangelo è una guida cieca che ha scambiato il Vangelo per un manuale, non sa che è Parola di Vita che agisce nella vita della chiesa e del mondo. 
Periferie perché bisogna ripartire dai poveri, dagli ultimi, dai piccoli, dagli infermi, da chi sta ai margini, da quanti sono "disprezzati e dimenticati". "Oggi e sempre", ha scritto Francesco, "i poveri sono i destinatari privilegiati del Vangelo, e l’evangelizzazione rivolta gratuitamente ad essi è segno del Regno che Gesù è venuto a portare" (EG 48). Ripartire dalle periferie, dunque, per rimettere indubitabilmente al centro della nostra vita Cristo. Al centro della nostra azione pastorale, delle nostre famiglie, delle nostre occupazioni, dei nostri rapporti interpersonali non può non esserci Cristo. Senza questa luce, senza questa speranza, senza questa sapienza, senza il mistero dell'incarnazione, tutta la nostra esistenza perderebbe significato e assumerebbe le fattezze di un cielo plumbeo.
Cari amici mi sembra che l'input più bello l'abbia dato Francesco quando ha detto ai vescovi coreani: costruite una Chiesa "versatile e creativa" nell'annuncio del Vangelo. Perché il relativismo, la superficialità e le frasi fatte sono oggi le minacce più forti alla nostra identità.
Grazie.
S. Em. Gualtiero Bassetti