venerdì 22 agosto 2014

Islam, le buone ragioni della Santa Sede

Mitra e Corano



di Massimo Introvigne

Leggiamo in questi giorni diversi appelli al Papa e alla Santa Sede - qualche volta cortesi e rispettosi, altre volte formulati in toni inurbani e inaccettabili - perché affermino con chiarezza che la sanguinaria violenza dell'Isis, lo Stato Islamico dell'Iraq e della Grande Siria del sedicente califfo al-Baghdadi, non è una deviazione dal vero islam ma la manifestazione conseguente di una violenza insita nei testi sacri e nella tradizione islamica. Qualche volta questi appelli sono bene argomentati. Altre volte si ha l'impressione di trovarsi di fronte a studiosi di religioni della domenica.
A mio avviso questi appelli sono sostenuti da alcune buone ragioni teoriche, ma sono inopportuni e spesso sbagliati in pratica.
Comincio da due buone ragioni. La prima è che la nozione di «jihad», guerra santa per sottomettere gli infedeli, è intrinseca all'islam. Alcuni studiosi particolarmente «buonisti» obiettano che il jihad, parola che significa «sforzo sulla via del Signore», si distingue in «grande jihad», lo sforzo per dominare le proprie passioni, e in «piccolo jihad», che è la guerra combattuta con le armi. Si tratta di un’argomentazione ripetuta così spesso che molti la riprendono acriticamente senza darsi pena di esaminarla più da vicino.
Ma l’eminente islamologo americano David Cook, che nel suo Understanding Jihad (University of California Press, 2005), ha tracciato la storia del concetto attraverso un’attentissima ricostruzione delle fonti, definisce «patetico e ridicolo»il tentativo di considerare primario nell’islam il significato di jihad come «sforzo spirituale di vivere bene». Nel suo libro, Cook inchioda i buonisti tramite diverse centinaia di citazioni che dimostrano come nei primi secoli dell’islam, mentre la fede di Muhammad (570-632) si espande con le armi, oltre il novantacinque per cento dei casi in cui la parola jihad ricorre in testi musulmani questa significa guerra armata. Certo, c’è un hadith, un detto di Muhammad in cui questi tornando dalla battaglia alle fatiche della vita quotidiana dichiara di stare ritornando «dal piccolo al grande jihad». Ma – senza entrare nelle complesse questioni evocate da Cook sulla autenticità degli hadith in genere e di questo in particolare – la questione è mal posta e ignora il cuore del problema. Nell’islam – almeno per il fedele di sesso maschile – non c’è distinzione netta fra vita spirituale e difesa e propagazione della fede in armi. La guerra ha una valenza spirituale, e una spiritualità che escluda completamente la guerra dal suo orizzonte religioso non è una vera spiritualità islamica.
La seconda buona ragione di chi invita a evidenziare le radici effettivamente islamiche dell'ideologia di al-Baghdadi è che, come rilevava Benedetto XVI, il fondamentalismo nasce laddove manca una chiara nozione del rapporto fra fede e ragione. L'islam, dopo avere letto per qualche secolo i filosofi greci, si è spaventato di fronte a derive che portavano alcuni o verso l'ateismo o verso il panteismo. Ha bruciato i testi dei filosofi - qualche volta non solo i testi, ma anche i filosofi - e per circa un millennio si è rifugiato in un fideismo che disprezzava la ragione, da cui alcuni intellettuali hanno provato veramente a uscire solo a partire dal XIX secolo.
Non si può dunque dire che la guerra, la violenza contro gli infedeli, il fondamentalismo ostile alla ragione siano «estranei» al «vero» islam. Quando in testi di Pontefici - non solo Francesco, ma già san Giovanni Paolo II (1920-2005) e Benedetto XVI - è emersa qualche affermazione diversa, specialisti dell'islam come il gesuita Samir Khalil Samir hanno protestato e, a credere ai vaticanisti, i Papi hanno anche preso nota del loro parere. Evidentemente il giudizio di fatto su che cosa insegni o non insegni l'islam è un giudizio filologico e storico, che non rientra a rigore fra le competenze del Magistero cattolico.
Detto questo, ci sono tre buone ragioni per giudicare corretta e opportuna la posizione del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, della Segreteria di Stato e dello stesso Papa Francesco sull'attuale crisi irachena: una posizione che evita di attribuire all'islam i crimini dell'Isis e di al- Baghdadi e anzi chiede ad altri esponenti islamici di condannarli.
La prima ragione è filologica. Il Corano, come molti testi religiosi - pensiamo all'Antico Testamento - è un libro complesso. Gli specialisti distinguono fra sure meccane e sure medinesi. C'è una differenza fra le sure del primo periodo della vita di Muhammad, quando – capo di una minoranza perseguitata – invocava la tolleranza della maggioranza, e quelle del secondo periodo quando invece – al potere e trionfante – si mostrava assai meno tollerante verso gli sconfitti. Queste alternanze e contraddizioni rendono difficile l'interpretazione. Non spetta al Papa affermare che le più tolleranti sure meccane devono prevalere sulle più bellicose sure medinesi. Ma neanche affermare il contrario.
La seconda ragione è sociologica. Nella religione cattolica i problemi d'interpretazione della Scrittura e della Tradizione non mancano ma abbiamo chi li risolve: il Papa e i vescovi uniti con lui. L'islam, specie sunnita, è una religione «orizzontale» che non ha l'equivalente del Papa e dei vescovi. Ci sono leader e studiosi considerati autorevoli, ma su qualunque problema ogni studioso o leader sarà facilmente smentito da un altro, non meno autorevole. Non esiste l'interpretazione definitiva di che cosa sia la dottrina islamica su questo o quel punto. Né possono inventarla i non musulmani.
La terza ragione, decisiva, è politica. In teoria si potrebbe immaginare un'azione militare euro-americana, o delle Nazioni Unite, che spazzi via l'Isis dall'Iraq. Lo stato attuale della leadership europea e americana e l'ostilità degli elettori occidentali a ogni intervento militare, in cui qualche soldato fatalmente muoia, rendono questa soluzione del problema ISIS piuttosto aleatoria. Con qualche supporto logistico dell'Occidente, è più realistico pensare che l'Isis possa essere sconfitto sul terreno solo da altri musulmani, si tratti dei curdi sunniti o dell'esercito iracheno prevalentemente sciita, sostenuto più o meno discretamente anche dall'Iran e non solo dagli Stati Uniti. È anche essenziale che altri Paesi sunniti - Turchia, Arabia Saudita, Qatar - taglino ogni sostegno logistico o finanziario all'Isis che proviene da ambienti estremisti dei loro Paesi. Detto in modo brutale ma semplice: se vogliamo salvare i cristiani - e gli yezidi - iracheni dai musulmani dell'Isis dobbiamo contare su altri musulmani. Una condanna dell'islam e del Corano come radici neppure troppo remote della violenza dell'Isis avrebbe le sue giustificazioni - ne ho fatto cenno - ma difficilmente aiuterebbe a convincere altri musulmani a scendere in campo contro al-Baghdadi. L'unico discorso politicamente possibile non è dunque «Voi musulmani siete tutti responsabili degli eccidi dell'Isis, perché la loro radice avvelenata è il Corano», ma «Sappiamo che ci sono diverse interpretazioni degli stessi testi dell'islam, voi siete diversi da al-Baghdadi, aiutateci».
Tenendo il secondo discorso si pecca contro la verità in nome della politica? Certo, il rischio di eccessi buonisti esiste, ma in realtà il Corano e la tradizione islamica sono davvero pieni di contraddizioni, nelle pieghe delle quali possono insinuarsi interpretazioni diverse. E l'assenza di una autorità che possa dire quale interpretazione sia corretta, se da un lato rende il dialogo più difficile (chi sono gli interlocutori?), dall'altra lascia margini alla diplomazia. Che, come ha detto Papa Francesco in Corea, non è una parolaccia. C'è una cattiva diplomazia che inganna i popoli. Ma ce n'è anche una buona, che salva vite umane. Chi chiede proclami e verità urlate sull'islam non ha sempre tutti i torti. Ma qualche volta rischia di fare il martire con il sangue degli altri.