Marcella
(ca. 330-411)
monaca
Agli inizi del 411 muore Marcella, nobildonna romana ricordata come la prima promotrice della vita monastica femminile nella città di Roma.
La sua vita ci è narrata con ampi dettagli storici e spirituali da Girolamo, che la conobbe attorno al 382 in occasione del suo soggiorno romano. Marcella, nata poco prima del 330, era di famiglia illustre. I fatti decisivi della sua vita furono la sua precoce vedovanza, dopo soli sette mesi di matrimonio, e l'incontro con le Vite dei padri del deserto che cominciavano a circolare in occidente grazie ad Atanasio.
Ritiratasi nella propria casa sull'Aventino, Marcella decise di condurre una vita di rinuncia, alla ricerca della povertà di cuore necessaria per poter comprendere le Scritture e fare la volontà di Dio. E delle Scritture Marcella divenne un'apprezzata interprete.
A lei si unirono col tempo altre giovani donne animate da analoghe intenzioni. Sebbene non fossero né le prime né le uniche donne a cercare di costituire un nucleo monastico nella capitale dell'impero, l'incontro con Girolamo diede loro, assieme a una sicura guida spirituale, una notorietà che è giunta fino ai nostri giorni.
Quando due sue compagne, Paola ed Eustochio, decisero di seguire il loro padre spirituale in Palestina, Marcella ritenne di non dover abbandonare il luogo di solitudine che era riuscita a crearsi nel cuore della città. Neppure l'arrivo dei goti di Alarico, della cui brutalità anche Marcella fece l'esperienza, le impedì di rimanere serenamente sino alla fine nel suo piccolo monastero cittadino, a ricercare la volontà di Dio nell'ascolto orante della sua Parola.
La sua vita ci è narrata con ampi dettagli storici e spirituali da Girolamo, che la conobbe attorno al 382 in occasione del suo soggiorno romano. Marcella, nata poco prima del 330, era di famiglia illustre. I fatti decisivi della sua vita furono la sua precoce vedovanza, dopo soli sette mesi di matrimonio, e l'incontro con le Vite dei padri del deserto che cominciavano a circolare in occidente grazie ad Atanasio.
Ritiratasi nella propria casa sull'Aventino, Marcella decise di condurre una vita di rinuncia, alla ricerca della povertà di cuore necessaria per poter comprendere le Scritture e fare la volontà di Dio. E delle Scritture Marcella divenne un'apprezzata interprete.
A lei si unirono col tempo altre giovani donne animate da analoghe intenzioni. Sebbene non fossero né le prime né le uniche donne a cercare di costituire un nucleo monastico nella capitale dell'impero, l'incontro con Girolamo diede loro, assieme a una sicura guida spirituale, una notorietà che è giunta fino ai nostri giorni.
Quando due sue compagne, Paola ed Eustochio, decisero di seguire il loro padre spirituale in Palestina, Marcella ritenne di non dover abbandonare il luogo di solitudine che era riuscita a crearsi nel cuore della città. Neppure l'arrivo dei goti di Alarico, della cui brutalità anche Marcella fece l'esperienza, le impedì di rimanere serenamente sino alla fine nel suo piccolo monastero cittadino, a ricercare la volontà di Dio nell'ascolto orante della sua Parola.
TRACCE DI LETTURA
Incredibile era il suo trasporto per la divina Scrittura; non si stancava di cantare: «Ho nascosto nel mio cuore le tue parole, per non peccare contro di te», e l'altro passo sul ritratto dell'uomo perfetto: «La sua volontà è di osservare la Legge del Signore; giorno e notte egli la medita».
Capiva che la meditazione non consiste nel ripetere i testi della Scrittura, ma nell'agire secondo la massima dell'Apostolo: «Sia che mangiate, sia che beviate, o qualsiasi altra cosa facciate, fate tutto a gloria di Dio», poiché solo dopo aver tradotto in vita i comandamenti sapeva di meritare l'intelligenza della Scrittura.
Capiva che la meditazione non consiste nel ripetere i testi della Scrittura, ma nell'agire secondo la massima dell'Apostolo: «Sia che mangiate, sia che beviate, o qualsiasi altra cosa facciate, fate tutto a gloria di Dio», poiché solo dopo aver tradotto in vita i comandamenti sapeva di meritare l'intelligenza della Scrittura.
Girolamo, dalla Lettera 127
* * *
La memoria liturgica di Marcella è l'occasione per riflettere sulle origini del monachesimo cristiano...
Le prime monache
cristiane
estratto da "Il monachesimo femminile" di Mariella Carpinello - Ed. Mondadori
Sembra che i monasteri femminili siano più antichi di quelli maschili. Philibert Schmitz, cui dobbiamo la storia dell’ordine benedettino dalle origini al
Novecento, lo sostiene espressamente e riferisce che in Egitto se ne incontrano
già a partire dalla metà del II secolo.
Dei sette volumi della sua opera, uno solo è dedicato alle monache. Questa
differenza non si deve a una sottovalutazione
dell’argomento, ma soltanto a una minore disponibilità di informazioni. La storia del monachesimo femminile ha lasciato tracce molto inferiori
rispetto a quella del monachesimo maschile, sia perché le monache sono vissute
in maggiore isolamento religioso, sia perché gli archivi dei loro monasteri,
trovandosi in zone di clausura, sono rimasti inaccessibili agli studiosi. Comunque, gli studi più recenti rilevano che le fonti
letterarie occidentali segnalano l’esistenza di comunità femminili
anteriormente a quella di comunità maschili. Nel 376 Ambrogio di Milano
descrive la vita di un gruppo di donne bolognesi votate alla verginità e
impegnate a diffondere il loro ideale fra altre donne; nel 384 la lettera di
due preti cita un’altra comunità femminile stanziata nella Tebaide egiziana;
nello stesso anno, a Roma, il termine «monastero» è usato da Girolamo per
descrivere la comunità di Lea, ottima madre spirituale: è con queste notizie,
tutte riferite a donne, che il monachesimo cristiano entra nella letteratura
latina.
Ancor prima che il movimento monastico faccia la sua esplosiva apparizione nei
deserti d’Oriente, la donna cristiana si rivela fortemente propensa a vivere solo per Dio. Durante le persecuzioni la sua
ostinazione nel respingere offerte di matrimonio per mantenersi casta è ragione
sufficiente a guadagnarle il patibolo. Uccisa perché cristiana, ma forse ancora
prima perché vergine: a questa sorte va incontro l’eroina nelle leggende dei
martiri. Talvolta perfino i suoi genitori, che speravano per lei matrimoni
convenienti, si accordano con le pubbliche autorità per giustiziarla nei modi
più spicci ed efferati. La seguace di Cristo trasgredisce la legge antica, che
la destinava alla riproduzione della specie, e vive l’universalità del
sentimento d’amore, rinnegando il primato dei vincoli di sangue e in esso la morale pagana. L’alternativa
fra nozze e vita verginale si profila di netto quale scelta fra paganesimo e
cristianesimo.
Uno dei segni distintivi della vergine cristiana è la sua forza nell’affrontare
le avversità, una dote anticamente considerata «virile». Emblematica
al riguardo è la storia di Teodora, alla quale i persecutori offrono la
possibilità di scegliere: o convertirsi al paganesimo e accettare le nozze,
oppure essere rinchiusa in un lupanare. Sceglie di prostituire il corpo anziché
l’anima, la pena viene eseguita e un gran corteo di
uomini si forma davanti al postribolo. Il primo che entra nella sua stanza è un
soldato, che inaspettatamente le propone la salvezza: indosserà le sue vesti e
le consegnerà le proprie, per consentirle di uscire camuffata e mettersi in
salvo. Offrendosi al martirio per lei, quest’uomo
espone nel proprio discorso una serie di metafore estremamente
significative:
Non avere paura, sorella, te ne prego. Vengo da fratello, non per possederti ma
per salvarti. Salvami, mentre salvi te stessa. Fingendo d’essere un lussurioso,
sono entrato e se permetti uscirò da qui martire. Scambiamoci le vesti. Le tue
si addicono a me, le mie a te ed entrambe si addicono
a Cristo. Le tue vesti faranno di me un vero soldato, le mie ti conserveranno
vergine .
Se la vergine
Teodora possiede forza virile, il soldato è capace ditale mitezza da subire il
martirio per amore. Un dialogo nuovo si è aperto fra i sessi nel solco
dell’insegnamento di Cristo, le relazioni fra uomo e donna non sono più
prigioniere di competenze famigliari definite, si spostano sul piano spirituale
e diventano confronti di anime. Paolo esprime
precisamente questa realtà religiosa quando afferma
che in Dio non c’è più uomo né donna, ma essi sono una sola cosa in Cristo. Nelle
leggende delle martiri lo scambio delle parti fra donna e uomo, motivo fra i
più frequenti, rappresenta personaggi complessi, donne capaci di comportarsi
come uomini pur restando femminili, uomini capaci di
comportarsi come donne senza perdere dignità; tale motivo, come vedremo, si
trasmetterà poi in tutta la sua ricchezza simbolica alla letteratura monastica.
A partire dal II secolo dell’era cristiana la
verginità è considerata una vera e propria professione e nel III secolo le
donne consacrate portano titoli distintivi e prestigiosi: vergini sante,
vergini sacre, spose di Cristo, serve di Dio, donne di Dio, religiose. Alcuni
scrittori patristici ne hanno un’alta opinione e assegnano alle vergini il
punto più elevato nel regno dei cieli, il più vicino al cuore di Cristo. Si
stabilisce una sorta di gerarchia: le donne che non hanno mai conosciuto uomo
avranno la pienezza della gioia, le vedove che sanno mantenersi pure ne avranno due terzi e solo un terzo riceveranno quelle che
hanno preferito sposarsi. La scala di merito riaffiorerà poi in zone ed epoche
diverse della storia monastica. Nei primi secoli cristiani, gli uomini
condividono con le donne l’ideale della castità, ma la letteratura patristica
identifica specialmente in esse la sua incarnazione.
Alla fine del IV secolo il movimento monastico è in
piena espansione e ha definito una ricchissima cultura dell’uomo e delle sue
relazioni con Dio. Compaiono così le prime regole monastiche, quelle di Pacomio
in Egitto, di Basilio in Cappadocia e di Agostino
nell’Africa nordoccidentale, tutte indirizzate a
monaci ma ben presto osservate anche da monache.
La sorella di Pacomio, Maria, si presenta alla porta
del monastero di Tabennisi quando il fratello è ormai
nella sua piena maturità di maestro spirituale. Poiché
l’insegnamento degli anziani è evitare gli incontri con donne, siano pure
strette congiunte, Pacomio non la riceve, ma le fa sapere dal monaco portinaio
che desidera aiutarla:
Se vuoi entrare in questa santa vita per ottenere misericordia davanti a Dio,
esaminati accuratamente e i fratelli costruiranno un edificio, dove potrai
ritirarti. Senza dubbio, grazie a te, il Signore farà venire altre sorelle, che
si salveranno per merito tuo.
Maria avverte nell’invito
fraterno la chiamata divina e accetta. La comunità femminile viene
organizzata come quella maschile, l’unica
differenza è che le monache non portano la melote, indumento di pelle ovina in
uso presso i padri del deserto. Per il resto, l’impegno spirituale cui si sottopongono è in tutto il medesimo. Le due comunità vivono
in stretta intimità di spirito, anche se fra loro vige la più rigorosa
separazione, come chiaramente stabilisce la Regola:
Diciamo qualcosa anche del monastero delle vergini. Nessuno vada a visitare se
non chi ha là la madre o la sorella o la figlia e parenti e cugine e la madre
dei suoi figli. Se poi vi sarà necessità di vederle
perché prima di rinunziare al mondo e di entrare in monastero spettava loro
l’eredità paterna o vi è qualche altro motivo manifesto, mandino con questi un
uomo di età avanzata, visitino quelle e tornino insieme. Nessuno vada da loro
tranne quelli che abbiamo detto sopra. Se vogliono vederle, prima lo facciano
dire al padre del monastero, questi li mandi dai seniori incaricati della cura delle vergini. Essi vadano
loro incontro e insieme vedano quelle con cui devono parlare, con ogni
disciplina e timor di Dio. Quando le vedranno non
parlino con loro di questioni secolaresche.
Tra i monaci e le monache sono ammessi soltanto
incontri motivati, nel corso dei quali sono permessi solo argomenti spirituali.
L’unica forma di dialogo consentita fra i due sessi è quella religiosa, mentre
la divisione fra le comunità permane quasi totale. Quando
muore una delle monache un gruppo di «fratelli sperimentati» si reca alloro
monastero per accompagnare la salma al cimitero.
Nelle prescrizioni di Pacomio troviamo per la prima volta formulata con forza
una norma che avrà conseguenze macroscopiche nella
vita storica delle monache cristiane:
Chi entra nel monastero ancora pagano, prima sia istruito su ciò che deve
osservare e quando avrà accettato ogni cosa, gli si diano venti Salmi o due
lettere dell’Apostolo o una parte del resto della Scrittura. E se ignora le
lettere, alle ore prima, terza e sesta vada da colui che
può istruirlo e impari con molta diligenza e ogni gratitudine. Poi gli si
scrivano gli elementi di una sillaba, le parole e i nomi e sia costretto a
leggere anche contro voglia. Nel monastero non ci sia proprio nessuno che non sappia leggere e non ricordi qualcosa della
Scrittura: come minimo il Nuovo Testamento e il Salterio.
Valida anche per le donne, tale «costrizione» si tradurrà per loro in un
progresso intellettuale senza precedenti.
La Regola di Basilio nasce in circostanze nelle quali il
personaggio della sorella Macrina ha importanza principale. A lei si deve la
conversione dei fratelli a vita ascetica e la nascita ad Annisoi
di una comunità femminile, cui appartengono la madre Emmelia, alcune vergini e un certo numero di schiave
liberate. Nei pressi sorge il monastero maschile che accoglie tra gli altri Basilio, il fratello minore Pietro e il teologo
Gregorio di Nazianzo. Come nei monasteri pacomiani, le norme stabilite da Basilio per gli uomini
valgono anche per le donne; l’autonomia di queste ultime è garantita
dal fatto che il superiore dei monaci non può intervenire nelle vicende interne
della comunità femminile, la cui clausura è maggiormente protetta. Al
confessore non è permesso appartarsi con le sorelle e la madre sarà sempre
presente alle confessioni, anche se a distanza. L’abate del monastero maschile
può tenere alle monache discorsi e conferenze. Peraltro non è considerato opportuno
che abbia frequenti colloqui con la badessa, cosa che darebbe adito a mormorazioni; per quanto possibile, i monaci vedono
raramente le monache e hanno con loro brevi conversazioni.
E dai cenobi basiliani che deriva la prima biografia
della letteratura cristiana dedicata a una donna,
quella di Macrina. A scriverla è un altro fratello,
Gregorio di Nissa, esegeta e teologo, che farà della
sorella la protagonista di una seconda opera non meno importante, intitolata L’anima e la resurrezione. Scritta sulla falsariga del Fedone, il dialogo platonico nel
quale Socrate si congeda dai discepoli prima di bere la cicuta, essa presenta
al posto del filosofo la monaca morente e intorno al capezzale Gregorio, alcune
consorelle e un medico. Nel corso del colloquio, Macrina rassicura il fratello circa l’esistenza della
vita eterna dopo la morte. Capace di guidare le persone che ama verso i
quartieri alti del firmamento, Macrina si profila qui come una sorta di
Beatrice ante litteram;
il suo modello rifiorirà in stagioni
e regioni lontane del monachesimo cristiano, producendo frutti di singolare
bellezza.
Come Pacomio e Basilio, anche il vescovo d’Ippona
Agostino favorisce la nascita di monasteri femminili e nei propri scritti
elogia le donne dei vangeli, che seguirono Cristo e gli apostoli, assistendoli
nelle loro necessità quotidiane. Il concilio di Ippona del 393, ripreso poi dal
concilio di Cartagine del 397, prevede che quando una
vergine consacrata perde i genitori il vescovo avrà cura di affidarla a donne
di buona fama o di unirla ad altre vergini, in modo da evitare che si trovi in difficoltà e
danneggi la reputazione della Chiesa. La sorella di Agostino,
rimasta vedova, fonda infatti un monastero in città, nel quale probabilmente
osserva la Regola
del fratello.
La comunità femminile di Ippona passa alla storia a
causa di alcune difficoltà interne. Intorno al 411
quando la sorella di Agostino
è morta e un’altra madre, Felicita, ha preso il suo posto ormai da molti anni,
le monache si ribellano contro di lei, accusandola di essere troppo severa
nelle punizioni; in discussione anche l’operato del sacerdote, un certo
Rustico. Richiamato al monastero per risolvere le contese, Agostino dichiara
che non vi andrà e che preferisce non entrare in discussioni, ma trattare la
cosa pregando Dio. In una lettera successiva invita
le sorelle a mantenere l’accordo e chiedere l’allontanamento del confessore
piuttosto che della madre, sotto il cui governo la
comunità è progredita. Inoltre Agostino lamenta che, da quando si occupa di
loro come superiore, ha dovuto affrontare tali tribolazioni che preferirebbe abbandonarle piuttosto che essere considerato
la causa dei loro problemi. Questo brano prefigura con singolare precisione le
miriadi di guai e disagi cui vescovi, abati e sacerdoti impegnati nella cura di
monache andranno incontro attraverso i secoli.
Un dato interessante è che Agostino chiama la superiora del monastero femminile
«preposita», termine che Paolo assegna ai sacerdoti,
e in questo modo stabilisce un’analogia diretta fra la struttura della comunità
e la
gerarchia del popolo di Dio. La preposita, o superiora, con il ministero gerarchico, ha
dunque anche un magistero dottrinale.
La Regola di Agostino trascritta al femminile riproduce le norme nella
loro esattezza, soltanto sostituisce termini quali «padre» e «fratello» con
«madre» e «sorella». Si possono notare tuttavia alcune differenze, ad esempio
una certa attenzione per quanto riguarda l’abbigliamento:
Non portate in testa un velo tanto piccolo che si veda al di sotto la
capigliatura. Che i vostri capelli non siano scoperti in
alcun modo. Che non si vedano al di sotto, sia
che sfuggano per negligenza, sia che siano acconciati ad arte.
Le
tentazioni carnali sono trattate con maggiore preoccupazione, come se la donna
su questo terreno fosse al contempo più fragile
e più attraente. Il testo denuncia tra le righe forme di
omosessualità femminile, sia fra le secolari sia fra le religiose, raccomanda alle monache
che escono dal monastero di non «eccitare la concupiscenza» e di non andare mai
al bagno in coppia, ma almeno in numero di tre. La versione femminile della
Regola di Agostino presenta un’altra divergenza
riguardo alla gerarchia: mentre i monaci agostiniani hanno un superiore e un
prete che si occupano di loro, le monache hanno una superiora, un prete e anche
il vescovo, quindi una terza autorità. Da ultimo, è particolare per le sorelle la concessione di fare il bagno una volta al mese,
privilegio di cui i confratelli non godono. Queste differenze fra i due codici
restano comunque elementi molto discreti.
Abbiamo visto che le prime regole monastiche prendono vita in monasteri doppi,
vale a dire composti da una comunità maschile e da una comunità femminile.
L’espressione «monastero doppio» è già in uso in questa stagione. Essa designa
due comunità, una di monaci, l’altra di monache, stabilite in uno stesso luogo
— non necessariamente entro la stessa
cinta muraria —
che militano sotto una regola e
un’autorità. Sovente è in comune anche il patrimonio e i due corpi comunitari
formano giuridicamente un’unica persona morale.
Monasteri doppi si trovano in ogni area di diffusione del movimento monastico.
Spesso le monache guadagnano la sopravvivenza lavorando la lana anche per i
fratelli e ne ricevono in cambio del cibo. La cultura monastica dei primi
secoli riconosce a uomini e donne la possibilità di
dare la medesima resa spirituale; fra i due sessi intercorrono relazioni
simbiotiche, delle quali l’istituto del monastero doppio è lo specchio. Tale
istituto si distingue peraltro da quello del monastero misto, che raduna uomini
insieme con vergini in situazioni poco chiare ed è deprecata dai concili
ecclesiastici e dai divulgatori dell’ideale ascetico. Fra essi
Giovanni Crisostomo, monaco in gioventù e poi vescovo di Costantinopoli, il
quale ci informa che nei deserti egiziani s’incontrano «vaste assemblee di
vergini» ed evidenzia con finezza e lucidità il nuovo tipo di virtù che esse
incarnano:
Le donne qui non hanno minore filosofia e vigore degli uomini: vigore non per
maneggiare lo scudo né per cavalcare, come vorrebbero i più severi legislatori
e filosofi greci, ma per partecipare ad una battaglia ben più aspra e dura.
Esse combattono con gli uomini una comune guerra contro il demonio e le potenze
delle tenebre. La fragilità del loro sesso non è affatto
d’impedimento in questi combattimenti. Queste lotte non richiedono la forza del
corpo, ma la buona volontà dell’anima. Perciò, molto sovente, in tal genere di
guerra, si sono viste donne combattere con maggiore coraggio e generosità degli
uomini e riportare, quindi, le più gloriose vittorie.
In questa stagione primitiva la lotta femminile contro
«le potenze delle tenebre» pratica anche le vie del monachesimo eremitico. I
monaci antichi, in genere, considerano la vita solitaria più perfetta di quella
comunitaria e ritengono che non tutti possono aspirarvi, ma soltanto chi si è addestrato sottoponendosi all’autorità di una regola e di
un abate può avventurarsi incontro alle incognite dell’isolamento e cogliere il
frutto della fatica ascetica. Le monache dei primordi non rinunciano a
misurarsi con questa estrema esperienza spirituale, e
lo fanno negli stessi modi che sono consueti ai monaci. E
così che, tra i padri del deserto, vivono anche madri. Sarra, che abita in una celletta presso il Nilo, per sessant’anni è tormentata dal demone della fornicazione,
infine non solo lo vince, ma lo costringe a dichiararsi vinto. Teodora, maestra
spirituale raffinata, predica l’umiltà quale unico vero antidoto contro il
male. La più celebre è Sincletica, controfigura
femminile del primo anacoreta Antonio. Bellissima, nobile e ricca, questa madre
ha iniziato la carriera di donna di Dio consacrandosi alla verginità,
ha abitato per un periodo in un cimitero e infine si è
trasferita
nel deserto. Rifiuta assolutamente gli incontri con
uomini
— mentre
alcune donne compaiono a volte nelle vite dei padri — ma è costretta ad
accogliere discepole, cui insegna la rinuncia al miraggio delle gioie coniugali:
Nel mondo abitualmente le donne incontrano grandi disagi, partoriscono con
fatica e con pericolo, soffrono per l’allattamento e si ammalano insieme ai
figli ammalati; sopportano queste cose senza prevedere la fine della fatica
... Essendo a conoscenza di queste cose non lasciamoci
adescare dall’avversario, come se la vita (nel mondo) fosse tranquilla e
pacifica.
In vecchiaia Sincletica si ammala per un cancro alla
mascella e resiste alla atroce sofferenza ammaestrando le figlie: «Soprattutto
con questi esercizi esercitiamo l’anima: teniamo bene davanti agli occhi il
nemico». Muore eroicamente, senza mai abbassare lo sguardo dal demonio che vorrebbe
piegarla.
Incontriamo una
religiosa di vocazione solitaria anche all’interno del cenobio per eccellenza,
quello di Maria e Pacomio. Fingendo di essere pazza, questa vergine evita ogni famigliarità con
le sorelle, che la disprezzano, e riesce a vivere del tutto appartata. In
questo modo costruisce una sorta di eremo ideale
dentro il cenobio, cosa che le varrà gran fama negli ambienti monastici
maschili. Svolge i lavori più umili, non siede mai a tavola, sopravvive di
briciole di pane e avanzi di cibo, osserva un silenzio perfetto e non si
lamenta mai quando viene insultata. Un giorno si
presenta al monastero un certo Piterum, anacoreta di
fama, il quale sostiene di volerla vedere. Le monache tentano di evitare
l’incontro, ma egli insiste e, non appena si trova davanti a lei, cade in
ginocchio e domanda la benedizione; un angelo gli ha rivelato
infatti che quella donna è spiritualmente più evoluta di lui. Alle
monache, che la credono pazza, Piterum risponde: «Le
pazze siete voi e io prego di essere trovato degno di lei nel giorno del
giudizio». Allora le sorelle iniziano a confessare le loro colpe: chi le ha
rovesciato addosso la sciacquatura dei piatti, chi le
ha infilato un senapismo nel naso, chi l’ha colpita con pugni. Dopo che Piterum si è congedato, non sopportando più le infinite
premure che le vengono rivolte, la vergine che si
fingeva pazza abbandona il monastero e scompare per sempre nel deserto.
In queste regioni orientali lo scambio delle parti fra i sessi continua a essere uno dei temi ricorrenti nelle storie monastiche,
come già lo è stato in quelle dei martiri. Incantevole a proposito la storia di
Teodora di Alessandria. Sposatasi in gioventù con un
uomo che ama, ingenuamente si lascia persuadere a tradirlo; per emendarsi
depone gli abiti femminili e indossa quelli del marito, quindi si rifugia in un
monastero maschile, presentandosi con il nome di Teodoro. Mandata in viaggio
dall’abate per sbrigare un affare, una notte si addormenta in un’oasi. Nello
stesso luogo si trova anche una ragazza scostumata, incinta benché non sposata,
che poi l’accuserà di averla stuprata e di essere il
padre del bambino. Venuto a conoscenza di questo fatto, l’abate, che continua a Ignorare l’identità di Teodora, per punizione le ordina di
andare nel deserto ad allevare il bambino da sola. La giovane donna vivrà per
sette anni di stenti e fatiche, senza mai cedere alla tentazione di tornare
indietro e discolparsi. Rientrata al monastero, alloggia
in una cella appartata con il bambino ormai cresciuto e diventa capace di miracoli. Solo alla sua morte l’abate
scoprirà la sua innocenza e ne glorificherà la
memoria.
Amorevole collaborazione reciproca mettono in opera
anche i personaggi femminili e maschili di un altro filone della letteratura
dei deserti, quello delle peccatrici pentite. La più celebre fra queste donne,
tutte ritagliate sulla figura di Maria
Maddalena, è Maria Egiziaca, il cui culto incontrerà
larghissima diffusione in Oriente. Fuggita dalla casa dei genitori per vivere
ad Alessandria, Maria fa l’accattona e si concede a
tutti gli uomini che le capitano. «Avevo infatti un
desiderio insaziabile» racconterà lei stessa «così che incessantemente mi
avvoltolavo nel letame della lussuria. E questo per me era piacevole e questo ritenevo vita: se incessantemente agivo nella violenza della
natura.» Recatasi in pellegrinaggio a Gerusalemme, si pente dei propri
peccati, si allontana dalla città e, passato il fiume Giordano, s’inoltra nel
deserto. Qui vive per molti anni sola come un antico
profeta, soccorsa direttamente da Dio, che non le lascia mancare il necessario
per sopravvivere. E' analfabeta e non ha mai letto le
Scritture, ma le apprende «dall’interno» per ispirazione divina. Quando è ormai
vecchia, scarnificata e depurata, incontra un anziano monaco, Zosima, che dopo una vita trascorsa da provetto asceta in
cenobio si sta avventurando da solo nel deserto per conquistare una ulteriore meta spirituale. La otterrà grazie a Maria, che, raccontandogli la propria
vita senza nulla tacere, gli dimostra quanto illimitata si
la misericordia di Dio. Quando la donna muore, il monaco provvede
a seppellirla e, pieno di nuovo vigore spirituale, trasmette la sua
memoria perché i peccatori non smettano di sperare.
Dalla storia di Maria Egiziaca derivano alcune varianti.
Una è quella che vede due illustri padri, Giovanni e Ciriaco, camminare
attraverso il deserto e imbattersi in una ex cantante
dell’Anastasi a Gerusalemme, la quale in gioventù si
è trascinata in ogni sorta di scandali. Ritiratasi nel
deserto per espiare, non ha mai visto mancare l’acqua nella sua brocca, né diminuire le fave macerate che ha portato con sé in un
cestello. Dio l’ha soccorsa lungo diciotto anni per consentirle il
riscatto.
Un’altra versione ha per protagonista un anonimo asceta, che un bel giorno si
sente inspiegabilmente attratto dal deserto, dove s’imbatte in uno strano
personaggio che gli racconta la seguente vicissitudine:
Un tempo ero una monaca e vivevo presso
il Santo Sepolcro. Un monaco
che aveva la cella all’entrata venne a conoscermi: ci
incontravamo così spesso che arrivammo al punto di cadere in peccato. Io
andavo
nella sua cella e lui veniva nella mia. Un giorno, mentre come al solito
stavo andando a trovarlo, lo sentii piangere e
confessarsi davanti a Dio. Bussai ma non volle aprirmi
a motivo di quello che aveva commesso con me. Continuò a piangere e
confessare
il proprio peccato. Udendo ciò mi dissi: «Lui si sta
pentendo del proprio peccato, io invece non mi pento del mio. Lui sta
confessando le sue colpe, non dovrei affliggermi
altrettanto anch’io?». Rientrata sola nella mia cella, mi vestii
poveramente,
riempii questo cesto di pane e questa brocca di acqua
ed entrai nel Santo Sepolcro. Là pregai e chiesi a Dio potente e
misericordioso
venuto per salvare quanti erano perduti e per rialzare quanti erano
caduti,
pronto ad ascoltare quanti si rivolgono a lui in verità, che mostrasse
la sua
misericordia verso di me, donna peccatrice, e che, qualora avesse
gradito il
pentimento e la conversione della mia anima, si degnasse di benedire
questo
pane e quest’acqua per farli bastare fino alla fine
della mia vita ...
Sono rimasta trent’anni qui senza
vedere nessuno all’infuori di te. Il cesto di pane e la brocca sono
bastati fino a ora alle mie necessità, senza venire meno. Dopo un po’ di
tempo il mio vestito si è consumato, ma nel frattempo i
capelli erano cresciuti e mi hanno coperto, così da non patire, per
grazia di
Dio, né il freddo né il caldo.
Congedatosi da lei a malincuore, l’asceta si reca al villaggio più vicino per
procurarle un abito, ma quando ritorna scopre che è morta. Allora comprende che
è stato Dio a inviarlo in quel luogo per renderle
onore.
Gli Apoftegmi recano tracce evidenti della stessa leggenda nel fatto
capitato a due padri che incontrano un monaco taciturno, solo e intento a intrecciare canestri. Tanto ne restano
impressionati che tornano a visitarlo. Trovatolo morto, iniziano a seppellirlo
e scoprono che è una donna, allora il più anziano osserva: «Vedi come le donne
sconfiggono Satana, mentre noi, in città, facciamo una ben meschina figura?».
Assomiglia a Maria Egiziaca anche l’attrice mimica
Pelagia, cittadina di Antiochia,
ricchissima e di bellezza sfolgorante, che si converte ascoltando in chiesa la
predica del vescovo Nonno. Dopo aver ricevuto da lui il battesimo, Pelagia
fugge dalla città per vivere in reclusione a Gerusalemme, sul monte degli
Ulivi. E un discepolo del vescovo Nonno a scoprirla defunta e
riferire la sua storia ai patriarchi di Gerusalemme, che le allestiscono
grandiose esequie. La storia di Maria nipote di Abramo, anziano asceta e maestro spirituale, è quella di una giovanetta che si lascia
abbindolare da un monaco balordo, abbandona il deserto e finisce in un
postribolo, dove si guadagna la fama di migliore fra le meretrici. Lo zio
Abramo si traveste da militare, va a cercarla e la riporta nella sua cella,
dove Maria vivrà da penitente fino alla fine dei suoi
giorni. Da ultimo Taide, prostituta che si compiace d’ogni sorta di crimini, viene convertita da un celebre padre del deserto, Pafnuzio, soprannominato Bufalo a causa del suo amore per
la solitudine. Muratala viva in una cella, Pafnuzio
la libera dopo tre anni, alla vigilia della morte. Ritroveremo il suo
personaggio, molto interpretato, in un romanzo del Novecento francese, Taide, di Anatole France.
Olimpia di Costantinopoli rappresenta uno dei casi più interessanti di
monachesimo femminile metropolitano. Orfana dall’età infantile, molto ricca e di alti natali, viene educata dal prefetto della città e dal
teologo Gregorio di Nazianzo, che già abbiamo
incontrato nel cenacolo di Macrina. Sposata a un alto
funzionario imperiale, che muore pochi mesi dopo le nozze, rifiuta il
matrimonio che l’imperatore Teodosio tenta d’imporle con le minacce e si vota a
una dura ascesi. Al suo personaggio si collega in modo speciale l’ideale della
vedovanza cristiana, da viversi in unione spirituale con lo sposo defunto, in attesa di ricongiungersi a lui. Legata al vescovo Nettario, che tiene conto delle sue opinioni nel gestire
gli affari della Chiesa e la ordina diaconessa nonostante la giovane età, Olimpia fonda un monastero di cinquanta donne, che
presto diventeranno duecentocinquanta. Dislocato al centro della città, ma
perfettamente protetto, il cenobio prevede un passaggio che consente di entrare
in chiesa evitando la pubblica via, a salvaguardia
della segretezza.
Nel 397 nella vita di Olimpia entra uno dei grandi
dell’Oriente cristiano, Giovanni Crisostomo. La formazione monastica, una dura
stagione solitaria vissuta in montagna e i rigorosi studi esegetici compiuti ad
Antiochia fanno di lui un uomo molto intransigente.
Olimpia lo stima immensamente e inizia a sostenere le sue battaglie contro la
corruzione del clero, cosa che le procurerà infiniti dolori. Di lei Giovanni
Crisostomo ammira la totale assenza di vanità femminile e il dominio di sé:
Un tempo eri padrona di te, ora sei impassibile. Il
desiderio del piacere non ti tormenta più e non hai più niente da soffocare.
Soppressolo completamente, resa la carne inaccessibile al desiderio,
hai insegnato al tuo stomaco ad accontentarsi di quel nutrimento e di quella
bevanda che sono bastevoli a non morire di fame e non esporlo al castigo. Io
non chiamo questo sobrietà e padronanza di sé, ma
qualche cosa di più grande.
Lo si può vedere anche nelle tue sante veglie.
L’istinto di dormire è stato cancellato insieme a
quello del cibo; il buon nutrimento in effetti alimenta il sonno. Tu l’hai
distrutto perché fin dall’inizio hai violentato la natura trascorrendo intere
notti senza dormire; più tardi, grazie alla lunga abitudine, hai fatto sì che
la pratica divenisse naturale. Così come è naturale
agli altri dormire, a te è naturale vegliare. Questo è meraviglioso,
stupefacente di per sé. Ma se si esaminano le circostanze, cioè
che questa ascesi è stata praticata fin dalla prima infanzia, che non avevi
maestri che t’insegnassero, che scandalizzavi un gran numero di persone e che
dal punto di vista spirituale sei passata da un ambiente empio alla verità, che
tutto ciò avveniva in un corpo femminile e quindi delicato, a dispetto della
situazione e del lusso dei tuoi parenti, che oceano di meraviglia, quando si
tiene conto di tutto questo. Perciò eviterò di
menzionare il resto, l’umiltà, la carità, le altre virtù della tua anima santa.
E tuttavia, non appena le ricordo, il mio pensiero
suscita mille sollecitazioni e mi spinge a descrivere particolareggiatamente le
forme di queste virtù, o almeno i loro tratti essenziali, altrimenti il
discorso sarebbe senza limite.
L’ostilità dell’imperatrice Eudossia, del clero bizantino e di Teofilo,
potentissimo vescovo d’Alessandria, si scatenano ben presto contro la
predicazione di Giovanni, costringendolo all’esilio, mentre Olimpia resta in
città a difendere la sua causa, sfidando il potere religioso e quello
imperiale.
Le lettere che Giovanni scrive a Olimpia dallo
sperduto villaggio armeno dov’è confinato sono quanto di più alto uomo abbia
scritto di donna. Una sua frase riepiloga i mutui sentimenti di
amore in Cristo, che non vengono meno, anzi si rafforzano nella
lontananza: «Sebbene ci troviamo a una così grande
distanza, io ricevo dal tuo coraggio una immensa felicità».
Olimpia riceverà la notizia della morte di Giovanni nel 407 e morirà l’anno
successivo.
Parallelamente a quanto avviene in Oriente, il monachesimo affonda le sue
radici anche in Occidente, mentre alcune personalità di primaria grandezza si
costituiscono ponte vivente fra i due mondi. Innanzitutto
Giovanni Cassiano, che viaggia a lungo tra i padri
del deserto, raccoglie i loro insegnamenti e li raduna in un classico della spiritualità monastica, le Conferenze
spirituali; dopo un soggiorno a Costantinopoli e una sosta a Roma, Cassiano si stabilisce nella Gallia meridionale, dove fonda
un monastero maschile e uno femminile. Sulla scia della predicazione di Martino
di Tours, la regione è molto
ricettiva alle novità del monachesimo d’oltremare. Comunità femminili si
trovano specialmente in Normandia, in Turenna e a
Marsiglia, ma una presenza femminile è segnalata anche a Lerins
all’alba del V secolo. Sui monti del Giura è importante, presso il cenobio
degli abati Romano e Lupicino, il monastero governato
dalla loro sorella, che raduna più di cento religiose in stretta clausura.
Uno fra i primi a portare in Italia la suggestione degli ambienti ascetici
egiziani è Atanasio, vescovo di Alessandria. Giunto a
Roma fra il 341 e il 343 per cercare appoggi contro l’eresia ariana, Atanasio
diffonde le idealità dei padri del deserto tra i circoli dei cristiani più
ferventi e trova ascolto in una fanciulla patrizia di
intelletto acuto e rara sensibilità, Marcella. Rimasta vedova a vent’anni o poco più, dopo aver rifiutato vantaggiosi
partiti, la giovane raduna un gruppo di vergini nel proprio palazzo sul colle
Aventino e lo trasforma in centro di studi biblici. La sua ricerca sembra
orientarsi specialmente su Pacomio, la cui Regola per i monaci non è ancora
stata tradotta in latino. Avanguardia della migliore cultura monastica in Roma,
Marcella è descritta da Girolamo quale coraggiosa
iniziatrice:
Il
mondo pagano per la prima volta restò confuso di fronte a una simile
donna, poiché a tutti fu manifesto che cos’era effettivamente la
vedovanza cristiana, ch’essa faceva risplendere con la sua rettitudine
interiore e il suo contegno.
Dotata di equilibrio non meno che di elegante bellezza, tanto da intimidire lo
stesso Girolamo, è studiosa di massima competenza. Partecipa alle
contese antiorigeniste a sostegno dell’ortodossia e
rivela tempra fuori del comune nel corso di tutta la vita, ma specialmente
durante il sacco di Roma del 410, quando convince i soldati di
Alarico a rispettare la sua persona e a scortarla con le discepole al
sicuro nella basilica di San Paolo fuori le mura.
Intorno a Marcella gravitano le donne più interessanti. Prima fra tutte Asella, che vive in città come un eremita vivrebbe nel
deserto e ispira a Girolamo un magnifico ritratto:
Nulla è più gioioso della sua serietà,
nulla più composto della sua allegria. Più mesto del
suo sorriso? Nulla; ma non c’è altra espressione più dolce della sua mestizia.
Il pallore del volto fa rimarcare la sua continenza, eppure non sa di ostentazione. Il suo parlare è silenzioso e quando tace è
eloquente. Nel muoversi non è precipitosa né troppo lenta; il suo contegno non
varia mai. Non ricerca l’apparenza o l’eleganza nel vestire, ma la sua mancanza
di ricercatezza è una vera eleganza.
In una città di lusso, di scostumatezza, di piaceri, dove vivere modestamente è
una umiliazione, solo col suo tenore di vita s’è
meritata l’entusiasmo dei buoni. E neppure i maligni
osano calunniarla. Le vedove e le vergini la imitano, le donne sposate
l’onorano, è temuta dalle perverse, guardata con
venerazione dai sacerdoti.
Al gruppo di Marcella e Asella appartengono anche la
vedova Paola e sua figlia Eustochio, alla quale
Girolamo indirizza uno scritto fondamentale nella storia della letteratura
monastica, la famosa Lettera 22. Abbandonata Roma, dove lascia altri figli,
Paola parte per l’Oriente con Eustochio e Girolamo e
compie un lungo pellegrinaggio fra eremi e monasteri, quindi si stabilisce a
Betlemme, dove istituisce un monastero doppio. In questa fondazione Girolamo
scriverà opere principali sulle tematiche del dialogo
fra i due sessi in questa stagione ascetica: la Vita di Malco, monaco prigioniero,
leggenda che descrive il percorso di un matrimonio spirituale; In memoria di Paola, tributo di Girolamo all’amica, che riporta le norme
osservate nel suo monastero; la traduzione della legislazione di Pacomio dal copto al latino, con una delicata dedica alla vergine Eustochio; inoltre un certo numero di scritti su temi al
femminile, quali l’educazione di una fanciulla cristiana, la conversione d’una
matrona del bel mondo al monachesimo, o ancora la chiamata alla vita verginale
di una giovane promessa sposa.
Vicenda parallela a quella di Paola è vissuta dalla patrizia Melania,
che rimane vedova a ventidue anni e abbandona il figlio in fasce per
trasferirsi a Gerusalemme con Rufino di Aquileia, celebre esegeta e traduttore. Qui fonda un
monastero doppio, che ospita un cenacolo di studi su Origene. Tra coloro che vi soggiornano temporaneamente il «teologo dei
deserti», Evagrio Pontico, i cui insegnamenti ascetici faranno scuola nei
secoli.
La nipote di Melania, Melania la Giovane, ricchissima tra le
donne romane, sposata per imposizione paterna al patrizio Piniano,
vive con lui in castità e, venduti i possedimenti di famiglia, lascia l’Italia alla volta dell’Oriente. Il suo
itinerario è piuttosto accidentato. Fondato un monastero non lontano da Ippona, trascorre il primo periodo da cenobita sotto
l’influenza del vescovo Agostino. In seguito si sposta a Gerusalemme, trova
ospitalità in un ricovero per poveri, quindi percorre i deserti d’Egitto,
apprezzata dai monaci specialmente per la sua «mentalità virile, ovvero celeste». Rientrata nella città santa, si chiude in
una cella sul monte degli Ulivi, macerandosi nella miseria e nella
trascuratezza. Dopo la morte della madre Albina fonda un monastero femminile.
L’iniziativa è così descritta dal biografo:
Melania invitò suo fratello (Piniano) a radunare per
lei alcune vergini. Ed egli le costruì un convento di circa novanta vergini al
quale ella diede come regola, fin dall’inizio, di non
intrattenersi mai con un uomo. Così provvedendo per loro ad una cisterna
interna e provvedendo a tutti i loro bisogni
materiali, diceva loro: «Io in persona vi renderò tutti i servizi utili come
una schiava e non vi lascerò mancare il necessario. Da parte vostra evitate
soltanto di incontrarvi con uomini». E dopo aver tratto con le sue persuasioni
diverse donne da luoghi malfamati e averle ricondotte a Dio nel sacrificio
... non smetteva di guadagnarle
alla salvezza.
Morto anche Piniano, Melania raduna un gruppo
di monaci affinché mantengano viva la lode a Dio presso la sua tomba,
inaugurando il fenomeno inconsueto di un monastero maschile fondato da una
donna. Nell’ultima parte della sua vita Melania intrattiene
rapporti
con la famiglia imperiale di Costantinopoli e predica a corte contro l’eresia nestoriana.
Una delle principali avventure di questi primi secoli è quella di una
pellegrina. Il suo nome è Egeria, ma le sue origini,
la sua famiglia e la sua identità religiosa sono tuttora incerte. Forse nativa
della Galizia o forse della Gallia meridionale, lascia l’Europa intorno al 380
e giunge in Terra Santa, dov’è accolta con ogni onore. Egeria appartiene alla
schiera di quelle grandi signore della tarda antichità che hanno ereditato
patrimoni sconfinati e li impiegano per sostenere indigenti, istituire circoli
ascetici e sperimentare di persona i modi dell’ascesi cristiana. Suo merito
particolare è quello di tenere un diario di viaggio indirizzato alle consorelle
rimaste in patria; poiché in questi anni sono pochissime e per lo più
incomplete le testimonianze scritte da mano femminile
e nessuna di esse riguarda un pellegrinaggio, il suo
giornale assume notevole importanza documentaria, non solo in ambito monastico.
Sbarcata a Costantinopoli, attraverso la Bitinia, la Galazia,
la Cappadocia,
la catena montuosa del Tauro, le città di Tarso, Antiochia, Haifa, Lydda, Emmaus, Egeria giunge
infine a Gerusalemme, dove si fermerà fino al 384, compiendo diverse escursioni
verso l’interno. Il percorso più avvincente è quello che la porta per centinaia
di miglia verso sud, attraverso la penisola arabica, ai piedi del monte Sinai,
fino al punto in cui Dio si manifestò a Mosè per
dargli le tavole della legge. Al ritorno Egeria percorre il deserto in
direzione del Mar Rosso, viaggiando di notte a dorso di cammello; visita la
città di Clysma e il suo porto, là dove oggi si trova
Suez. Percorre poi il territorio egiziano fino alla sponda del Nilo e la
fertile terra di Gessen, quindi attraversa il Basso
Egitto e torna a Gerusalemme. Dalla città santa, nel corso d’una
seconda escursione scende fino al Giordano, costeggia il Mar Morto e sale al
monte Nebo, dalla cima del quale Mosè
vide la terra promessa prima di morire. Lasciata la Palestina, Egeria torna
a spostarsi verso est, raggiunge Antiochia,
da qui il fiume Eufrate, varcato il quale è a Edessa;
visita poi il villaggio di Charra, ove Abramo giunse
dopo aver lasciato la patria nativa su comando di Dio, e poco lontano il pozzo
di Giacobbe, quindi torna sui propri passi, e finalmente arriva al Bosforo. Da
Costantinopoli scrive alle sorelle per avvisarle che non intende ancora tornare
in patria:
Mie signore ...
ho già in animo di partire nel nome di Cristo vostro Dio
da questo luogo e andare in Asia, ad Efeso, per pregare sul martyrium
del santo e beato apostolo Giovanni. Se dopo di ciò sarò ancora in questo
corpo, se potrò conoscere altri luoghi, io stessa di presenza ne parlerò alla
carità vostra —
se Dio vorrà concedermelo — oppure, se avrò in animo qualche altro progetto, lo
racconterò per iscritto.
Il suo è un viaggio nei luoghi delle Scritture, ma anche un viaggio attraverso
il libro delle Scritture, di cui ricostruisce i fatti nel teatro geografico che
li ambientò. Lo stile è quello di una donna di buona educazione letteraria, che rinuncia alle eleganze
della forma classica per adottare la semplicità del linguaggio biblico; negli
stessi anni, anche Girolamo compie il medesimo sforzo, lavorando alla sua
Vulgata. La narrazione di Egeria è dunque dì genere
squisitamente monastico: essa si presenta quale soggetto religioso consapevole
di aver abbracciato, con certi valori e contenuti, anche un modo di
comunicarli. Il suo scritto appassionerà i monaci del Medioevo, quando il pellegrinaggio
diventerà una delle forme di devozione più in voga. Il monaco spagnolo Valerio,
vissuto circa tre secoli dopo di lei, scrive:
Se noi ci occupiamo degli atti virtuosi degli uomini fortissimi e santi, la
nostra ammirazione è tanto più attratta dalla fermezza costantissima
d’una fragile donna: com’è narrato dalla meravigliosa storia della beatissima
Egeria, che si mostrò più coraggiosa di qualunque uomo
al mondo ..
Perciò carissimi, come non arrossire di
vergogna, noi che godiamo di forze fisiche e di perfetta salute, dinanzi a
questa donna che ha seguito l’esempio del patriarca Abramo battendo
coraggiosamente come ferro sull’incudine quel corpo femminile tanto fragile,
nella speranza della ricompensa infinita della vita eterna?
Dal viaggio di Egeria agli studi biblici di Marcella, dalle battaglie religiose
di Olimpia alle penitenze di Maria Egiziaca, le vite
delle prime monache cristiane perseguono in diverse direzioni l’unico intento
di cercare Dio. Queste donne, come le loro sorelle più o meno
anonime, sono consapevoli che tale ricerca, benché avvenga in modi
differenziati, non può svolgersi se non è fortemente orientata. Nulla di ciò
che fanno è affidato al caso, tutto è guidato nel solco dell’insegnamento di
Cristo e della tradizione dei padri. Esse
sanno che il monachesimo non è una scelta
da condursi spontaneamente, ma una vera e propria militanza entro i ranghi di
una gerarchia di princìpi e di autorità,
con un suo codice di comportamenti; e che soltanto su un percorso ben tracciato
potranno conseguire progressi. Le monache cristiane, già ai primordi, sanno che
il monastero non è un indefinito luogo di ritiro, ma una scuola, dove imparano
come vestirsi, dormire, mangiare, pregare, studiare, meditare e, sopra ogni
cosa, come rinunciare alla volontà propria per dare modo alla volontà divina di manifestarsi. Il concetto di
monastero-scuola compare per la prima volta nella agiografia
di santa Eugenia, nella quale si snoda il solito itinerario della giovane che
si traveste da uomo, diventa monaco, poi abate e, attraversate le necessarie
traversie, guadagna enorme potere di conversione. Un anonimo e importante
legislatore, il cosiddetto Maestro, attivo nell’Italia centrale all’inizio del
secolo VI, raccomanda ai suoi discepoli di leggere la vita di Eugenia e ripropone l’idea che il monastero è una
scuola al servizio del Signore. Benedetto da Norcia
inquadrerà il concetto con ogni chiarezza nella sua Regola e le monache
d’Occidente lo erediteranno attraverso di lui.
L’autorità della superiora all’interno dei monasteri è sacra e viene sempre espressa con definizioni che indicano la sua
maternità spirituale, quali mater
animarum, mater familias, mater montisterii. Il
termine abbadessa, femminile di abate,
non è in uso in questi primi secoli, ma fa la sua apparizione più tardi a Roma,
nel monastero situato presso la basilica cimiteriale di Sant’Agnese
fuori le mura. Costruita per incarico di Costantina, figlia dell’imperatore
Costantino, intorno alla metà del IV secolo sulle
catacombe che ospitano le spoglie della martire, la basilica comprende anche un
mausoleo, eretto dalla stessa principessa per avervi un giorno sepoltura,
insieme con la sorella Elena, sposa di Giuliano l’Apostata. E in questo luogo significativo, dove s’incrociano percorsi di donne impegnate
ad affermare il cristianesimo, che compare per la prima volta in Occidente il
termine abbatissa: lo
troviamo sulla lapide tombale della sacra
virgo Serena,
oggi esposta fra il materiale archeologico del complesso monumentale. Questa
lapide data l’anno 514. Siamo alla vigilia di una svolta che per il monachesimo
femminile, come per quello maschile, si profila epocale.